Un omaggio alla partigiana Lidia Menapace
Un racconto di Tersite Rossi
Se ne va un altro pezzo della storia partigiana. Dedichiamo a Lidia Menapace questo nostro breve racconto.
Tersite Rossi (Marco Niro e Mattia Maistri)
La sconfitta del partigiano
Meno male che domani si sta a casa... - disse da dietro la mascherina l’infermiera più vecchia, ansimando, rossa in faccia e sudata, dopo aver adagiato l’anziano ospite sul materasso.
Già - disse l’infermiera più giovane, finendo di sistemare le lenzuola del letto con le mani guantate. - Non mi ricordo mai perché si sta a casa, il 25 aprile...
Si festeggia la vittoria della guerra, mi pare...
Sarà... Ma quale guerra, poi?
Credo la seconda. O forse era la prima?
L’anziano tossì violentemente. Le due infermiere non gli badarono. Quella più giovane si limitò a controllare che la flebo funzionasse. Funzionava.
La festa dei comunisti - riprese la più vecchia. - Così la chiamava sempre mio padre. Non la sopportava.
Ma perché, la guerra l’hanno vinta i comunisti?
Guarda, non chiedermi altro: di politica io non ci ho mai capito nulla, né m’interessa.
Idem. Però si sta a casa, e a me sta bene così.
Anche a me, se è per quello.
A quel punto, le due donne lasciarono la stanza, avvolta dalla penombra del pomeriggio che iniziava a farsi sera. L’anziano, rimasto solo, sospirò debolmente. Respirava a fatica. Era malato. Il virus aveva contagiato anche lui. Ma lo avevano lasciato lì, sul letto di quella casa di riposo, perché in ospedale non c’era più posto. Del resto, lo aveva capito: la priorità, in quella situazione di crisi, non ce l’avevano certo i vecchi. Loro potevano morire. Specialmente gli ultranovantenni come lui.
Odiava il 25 aprile, Saverio. Arrivarci in quarantena gli dava sollievo. Gli risparmiava, quell’anno, lo stanco rituale del partigiano. Partigiano per un giorno. Poi dimenticato per gli altri trecentosessantaquattro.
Odiava il 25 aprile, Saverio, perché gli ricordava ogni anno il loro fallimento. La vanità della loro lotta. Avevano combattuto per un’Italia più libera, più giusta, più democratica, più solidale. Avevano combattuto per liberarla dalla prevaricazione, dallo sfruttamento, dalla diseguaglianza, dalla dittatura, dal mors tua vita mea. Ma, dopo 75 anni, Saverio se la ritrovava ancora occupata, l’Italia. Occupata da chi il 25 aprile non festeggiava, ed erano sempre di più, neri di rabbia e di credo. Occupata dagli impostori in giacca e cravatta che, al contrario, si riempivano la bocca di retorica celebrativa, ma l’avevano resa un Paese servo di banchieri e mercanti, non più libero né capace di disegnare il proprio destino. Occupata da chi, come quelle due infermiere, nemmeno sapevano cos’era, il 25 aprile, occupata da quelli che l’importante era stare a casa.
Stare a casa. Saverio si ricordò del lontano giorno in cui, nel 1944, lui l’aveva lasciata, la casa, per salire sulle montagne, in mano un fucile e in spalla una sacca con pochi viveri. L’importante, allora, per quelli come lui, era lasciarla, la casa, mica restarci.
Quelli come lui. Quanti ne rimanevano? Pochi, ormai, e forse, dopo quell’epidemia, sarebbero spariti del tutto, per sempre. Del resto, a chi sarebbe importato veramente?
Di colpo, Saverio si sentì completamente solo. Si sentiva così da tempo, in effetti. Forse ci si era sempre sentito. Si era sentito solo quando era sceso dalle montagne e si era scoperto orfano, i genitori orrendamente trucidati dai nazisti. E poi quando il suo unico figlio era morto ammazzato sul lavoro, schiacciato da una pressa, ormai trent’anni prima, in un Paese già venduto anima e corpo al profitto a ogni costo. E infine quando la moglie, dieci anni dopo, se n’era andata con un tumore ai polmoni, come capitava a tanti, sempre di più, in quella pianura dei veleni in cui gli impostori in giacca e cravatta avevano trasformato il loro vecchio mondo scomparso, fatto di campi, cascine e canti d’uccelli e di contadini.
Ma adesso Saverio si sentiva solo in un modo più profondo, più completo, più pieno. A mancargli non erano più soltanto le persone in carne e ossa, ma i valori per i quali aveva combattuto. Non li vedeva più, attorno a lui, nemmeno a sprazzi, nemmeno guardando bene. Vedeva solo un grande vuoto.
Saverio sospirò di nuovo. Faceva sempre più fatica a respirare, sentiva che dentro di sé il virus avanzava e si preparava a vincere. Ma lui non aveva nessuna intenzione di richiamare le infermiere. Che non si dessero pena, loro come chiunque, per un vecchio ormai inutile, per un vecchio al capolinea. Per un vecchio partigiano.
Chiuse gli occhi. Ripensò a tutto quello che aveva fatto, sulle montagne e dopo. Si disse che, dopotutto, avrebbe rifatto ogni cosa. Non rinnegava nulla. Perdere, in fondo, non era un problema. Perdere era una questione di metodo. E lui, il metodo, ce lo aveva sempre messo.
Riaprì gli occhi. Fissando la tenda grigia che impediva all’ultimo sole di entrare in quella stanza fredda e squallida, Saverio sorrise. Perché, di colpo, capì che crucciarsi era sciocco, e non ne aveva motivo. Semplicemente, doveva andare incontro alla sconfitta a testa alta. Una volta ancora. Come aveva sempre fatto. Con metodo.
L’indomani era il 25 aprile e lui, si disse, avrebbe festeggiato la sua liberazione.
La mattina dopo, il volto di Saverio era sereno come non non lo era mai stato, lì, dentro quella casa di riposo. Il vecchio partigiano era morto.
Non gli fecero alcun funerale, perché le misure contro il contagio non lo permettevano. Fu cremato e dimenticato da tutti nel giro di poco tempo.
Appena prima che la vita lo abbandonasse, quella notte, Saverio aveva fatto un sogno. Al suo capezzale, c’erano suo figlio e sua moglie, ancora vivi. E fuori c’era l’Italia. Un Paese libero.