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Pere Ubu

Ribelli in via di estinzione

Pere Ubu

Della formazione originale dei Pere Ubu, esibitisi al teatro Sanbapolis all’interno della rassegna “Transiti”, è rimasto solo David Thomas, il cantante, il compositore, il leader. E a dire la verità, neanche lui sembra stare troppo bene. Dimagrito, invecchiato, sale sul palco con difficoltà, aiutato da un musicista della band e da un assistente. A fatica raggiunge il centro della scena e si siede su uno sgabello dietro un leggio. Da lì non si muoverà più fino alla fine del concerto; figura quasi spettrale, il fantasma di quell’eccezionale performer che è stato.

Più avanti nel concerto accuserà dei dolori che lo faranno imprecare, interrompere momentaneamente il set e concludere stoicamente e un po’ frettolosamente. La discesa dal palco è ancora una pena. Nessuno, nel convinto applauso finale, si immagina neanche lontanamente di chiedere un bis. Cappello in testa, giacca di pelle camicia e pantaloni neri, dietro il leggio si scorge appena il suo viso. Della sua leggendaria gestualità spastica, delirante, è rimasto solo qualche movimento di un braccio. Il concerto è la cronaca di una decadenza in diretta. Eppure.

Eppure basta solo la presentazione del primo brano perché ritorni intatta e pungente l’emozione per l’ascolto di un gruppo eccezionale ed unico. Anche la voce è invecchiata, più bassa e graffiante ma sempre unica e inconfondibile nel timbro, nelle connotazioni, negli accenti, nelle marcature, nei deliri, nelle apparenti stonature, nella libertà espressiva. David Thomas potrebbe cantare un elenco telefonico e resterebbe comunque genialmente se stesso. Ma non canta l’elenco telefonico, perché il tour e l’ultimo disco sono ispirati a “The Long Goodbye” di Raymond Chandler, classico della letteratura hard boiled, pubblicato nel 1953, lo stesso anno di nascita di Thomas. Così per quasi tutto il concerto ogni brano è introdotto da considerazioni/narrazioni che riguardano il libro, il protagonista Philip Marlowe, il personaggio di Terry Lennox, o Elliott Gould, che ha interpretato la parte del detective in un noto film di Robert Altman, negli anni Settanta. Poi si divaga ironicamente sulla figura dei rockers come persone socialmente responsabili (!?), sulla bella necessità del merchandising o sul desiderio di bere, visto che loro si considerano una garage band da bar.

Infine c’è la musica e si parte subito con un suono anarchico che si dispiega tra chitarre acide e compatte, rumorismi e cacofonie sorrette da strutture che rimandano a certo blues-rock deviato. E il collegamento con le bizzarrie innovative che hanno fatto di loro un gruppo centrale tra i ‘70 e gli ‘80 è emozionante. Keith Moliné alla chitarra è preciso e incisivo, Gagarin alle tastiere è guastatore di spicco e di fondo, mentre alla batteria, un altro artista leggendario, l’ex Henry Cow Chris Cutler, volteggia tra piatti, pelli, l’aria e lo spazio intorno a lui con gestualità creativa. Il cantato è squilibrato, ubriaco, aggressivo, una voce personalissima che dopo alcuni brani passa al recitativo e pare di assistere ad un reading la cui base musicale è sempre più avant rock concettuale, ritmicamente e melodicamente scomposto.

Musica decisamente fuori dagli schemi ed è per questo che, da più di più di quarant’anni, non appare datata o scontata, ma ancora fresca, sorprendente e necessaria.

Insomma, i Pere Ubu ancora disturbano, ti mettono alla prova, outsiders che rompono con le convenzioni e a loro modo sconvolgono e feriscono con l’arte. Possono piacere oppure no, ma non si vedono e sentono spesso cose del genere, ribelli in via di estinzione, figure che sembrano essere sparite dai radar di questa nostra società.

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