“Sentieri selvaggi con Cristina Zavalloni, soprano”
Il contemporaneo dei “Sentieri Selvaggi”
La storia musicale dell’ensemble Sentieri Selvaggi, fondato nel 1997 assieme ad altri da Carlo Boccadoro, uno dei più rinomati compositori italiani degli ultimi decenni (oltre che direttore d’orchestra e musicologo), è ricca di progetti pregiati e collaborazioni prestigiose e senza confini, da Moni Ovadia a Micheal Nyman, da Philip Glass a Eugenio Finardi; l’obiettivo (pregevole e vent’anni fa certo non troppo usuale) è sempre stato programmaticamente quello di avvicinare il pubblico alla musica contemporanea. Davvero pregiato anche il cartellone, tra classici del Novecento come la Sonata per flauto, arpa e viola di Debussy e le Folk Songs di Berio e la nuova musica contemporanea italiana di Boccadoro, Testoni e Carlo Galante (commissionata per l’occasione), dove l’immediatezza e la chiara eloquenza della discorsività sonora sono state il fil rouge delle atmosfere ricche e variegate del programma.
Ma l’alchimia tra pagine d’alta qualità e musicisti di solida esperienza che solitamente caratterizza i migliori concerti sembra essere mancata, fin dall’inizio, con un Debussy piuttosto scomposto, a tratti frettoloso e nel terzo tempo addirittura aggressivo, con delle sonorità talvolta esageratamente sfogate e un flauto che ci è parso fin troppo felpato, quasi polveroso.
Con Boccadoro alla direzione l’ensemble è parso indubbiamente meno frammentato e certamente sintassi e agogiche ne hanno guadagnato in amalgama e coerenza. La Zavalloni poi è sempre incantevole nel suo essere una figura da palcoscenico a tutto tondo, magnetica tanto nelle mille sfumature vocali ed espressive delle Folk Songs quanto nella tenuta del palco, nel dialogo di gesti e sguardi con gli altri musicisti, nell’eleganza dell’abito come della mimica corporea che cattura il pubblico a tal punto che quasi non le stacca gli occhi di dosso.
Interessante infine le “Poesie Occidentali” di Carlo Galante, che anche come spunto di modalità compositiva, oltre che come suggestioni per i cinque movimenti che compongono l’opera, ha preso i kenniger delle saghe nordiche, delle complesse metafore che di fatto sostituiscono ad un concetto una perifrasi più espressiva che lo esprime. È evidente il carattere descrittivo e onomatopeico della composizione, dove in un’atmosfera onirica e dorata il sonoro fragore del piatto racconta d’onde infrante e i glissati sinuosi degli archi seguono le spire striscianti d’un letto di serpenti.