La parabola degli Stati Uniti
Da luminosa Seconda Atene a fosco Quarto Reich?
Quando nel 1775 nacquero gli Stati Uniti d’America e fu promulgata la nuova Costituzione americana, i cui principi largamente riecheggeranno nello slogan Liberté-Egalité-Fraternité della Rivoluzione Francese di alcuni anni dopo (1789), poche tra le menti illuminate dell’epoca dubitavano che fosse rifiorito al di là dell’Atlantico lo spirito della antica Atene, di cui l’America dei rivoluzionari che avevano sconfitto l’Inghilterra rinverdiva gli ideali di democrazia e libertà. Si può davvero dire che sulle sponde della costa orientale era nata una Seconda Atene che sarebbe rimasta a lungo un punto di riferimento imprescindibile per i movimenti di liberazione nazionale e per le forze liberali e democratiche, che nel corso dei due secoli successivi avrebbero plasmato la storia del pianeta: dalla stessa Rivoluzione Francese sino ai moti costituzionali dell’Italia e della Germania del periodo dell’unificazione (rispettivamente 1861 con Cavour e 1871 con Bismarck); dai moti costituzionali dell’Impero Ottomano e dell’Impero Persiano dei Qajar a cavallo tra fine ‘800 e inizi ‘900, alle grandi rivoluzioni socialiste della Russia del 1917 e della Cina del 1947.
Negli anni della Guerra Fredda, quando gli USA consideravano l’America Latina il proprio cortile di casa - promuovendo insurrezioni e colpi di stato come a Cuba nel 1961 nell’invasione anti-castrista della “Baia dei Porci” o nel Cile di Allende nel 1970, o guerre spaventose come in Corea negli anni ‘50 e in Vietnam negli anni ‘70 - l’immagine di un’America paese “propulsore di democrazia e libertà” si è notevolmente appannata, sino a precipitare rovinosamente nella vergogna di Guantanamo e dei torturatori in Irak.
Ma nonostante tutto questo, quegli stessi ideali sono stati capaci di plasmare ancora in tempi recentissimi le (ormai abortite) “primavere arabe” degli anni 2010-2013, che furono largamente supportate, come è noto, dall’America di Obama.
Ma oggi, è inutile negarlo, la seconda Atene è un ricordo sbiadito. Un presidente che minaccia a giorni alterni di fare guerra alla Corea o all’Iran, infilando arbitrariamente interi paesi nella categoria degli “stati canaglia”; che spedisce minacciosi gruppi di portaerei nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nel Mare Cinese per mostrare chi è il più forte; che usa le operazioni coperte della CIA per manovrare a proprio piacimento i terroristi di ieri (leggi: ISIS, al-Qaida, al-Nusra), che in queste settimane vengono trasferiti da Idlib (vicino al confine turco) verso il confine orientale della Siria, dove si preparano a servire da massa di manovra per disturbare i collegamenti tra Siria e Irak, alleati dell’Iran; un presidente che minaccia a dritta e a manca gli stessi alleati europei e asiatici di sanzioni pesantissime, se continueranno a commerciare con chi l’America considera paese sgradito; che dichiara da un giorno all’altro che le alture del Golan siriane sono parte integrante dello stato israeliano, infischiandosene del diritto internazionale e della sensibilità di tutti gli arabi (persino sauditi!) che hanno levato un coro unanime di proteste sdegnate...
Ce n’è abbastanza per sospettare che il faro ultrasecolare di civiltà della seconda Atene si stia ormai spegnendo. Non che non vi siano voci che si levino a protestare verso questa deriva dell’America di Trump. E da molti e diversissimi pulpiti. Di recente l’ultima sfornata di Premi Pulitzer (quelli dati ai più grandi scrittori americani) ha premiato il fior fiore degli intellettuali oppositori di Trump; un gruppo di 50 generali e alti rappresentanti della diplomazia americana in pensione riuniti nell’American College of National Security Leaders ha ammonito la Casa Bianca sui pericoli per la pace e l’ha esortata a rientrare nell’accordo nucleare con l’Iran abbandonato nel 2018; il presidente dell’associazione degli industriali tedeschi ha pubblicamente denunciato la politica degli embarghi e delle sanzioni americane, che l’America pretende di applicare ovunque nel mondo facendole rispettare a suon di multe salatissime (l’ultima: 900 milioni di euro saranno pagati dalla filiale tedesca HVB di Monaco della nostra banca Unicredit, che aveva facilitato i commerci con paesi messi sotto embargo dagli USA).
Non bastassero le rivelazioni scioccanti di Assange, che hanno scoperto il vaso di Pandora su tante operazioni oscure della CIA in vari Paesi del mondo, ora da più parti si paventa l’inizio di operazioni coperte volte a creare il pretesto, insomma il casus belli per un attacco americano-israeliano all’Iran, presumibilmente partendo dalle basi di stati arabi amici. E infatti puntuale è arrivato il monito del portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova: “Consigliamo gli Stati Uniti di non cercare scuse per iniziare un nuovo conflitto [dopo le note catastrofiche imprese in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia ecc.], aumentando la sofferenza di tutto il mondo con la loro politica aggressiva”. Non occorre infine menzionare le ormai innumerevoli perorazioni delle autorità religiose cristiane di mezzo mondo, certo sempre molto caute nell’indicare un responsabile della pericolosa deriva in atto, ma non per questo meno chiare nel denunciarla.
Un pericolo per la pace?
La grande domanda oggi è: questa America è diventata un pericolo per la pace? Qualcuno lo crede fermamente e teorizza per esempio che il sistema industriale-militare statunitense ha bisogno di una bella guerra ogni 15-20 anni per auto-alimentarsi. Altri commentatori segnalano una conturbante continuità tra la CIA del dopoguerra, che aveva arruolato il fior fiore della intelligence nazista fuggita in America dopo la sconfitta, e la Cia di oggi, impegnata a tramare colpi di stato e guerre per procura in mezzo mondo in spregio alla sovranità dei popoli, che si serve di volta in volta di gruppi di estremisti dichiarati alleati finché servono, e poi terroristi quando non servono più: l’esempio di al-Qaeda di Osama bin Laden, alleato degli americani in Afghanistan all’epoca dell’invasione russa, poi combattuti come terroristi e complici dei tagliatori di teste dell’ISIS, e oggi di nuovo possibili alleati “coperti” degli USA in funzione di contenimento dell’Iran, è ormai un caso da manuale.
Un analista inglese, Finian Cunningham (che scrive su The Mirror e Independent), riflettendo su un articolo di Paul Craig Roberts, alto ex-funzionario del governo americano dell’era Reagan, così si esprime: “La bellicosità di Trump porta alcuni commentatori a confrontarla coi discorsi nazisti nei raduni di Norimberga nel 1938-39. L’autore (ossia Paul Craig Roberts) l’ha riassunto in maniera sconcertante dicendo che gli Stati Uniti sono ora il Quarto Reich, i successori del Terzo Reich nazista”.
Quando qualcuno della statura di Paul Craig Roberts fa un’osservazione così grave, bisogna ascoltare. Non si tratta della mera iperbole sparata da un avventizio. Le credenziali di Roberts sono impeccabili. Ha lavorato nell’amministrazione Reagan negli anni ‘80, come assistente del segretario del Dipartimento del Tesoro. Roberts ha anche lavorato come redattore del Wall Street Journal ed è un autore premiato. Per tale famoso autore dichiarare che gli Stati Uniti sono il Quarto Reich indica come il Rubicone sia stato attraversato dal Paese (vedi l’archivio dei suoi articoli nel sito paulcraigroberts.org)
Parole gravi e preoccupanti, se è vero che vengono da uno stimato professionista della politica e del giornalismo USA, non da un jihadista o da un teorico dell’anti-imperialismo. Sarà un’ironia della storia, ma fa riflettere che i due più potenti uomini dell’America di oggi, il presidente Trump e il segretario di stato Pompeo, tacciati di guerrafondai dagli analisti summenzionati, portino rispettivamente un nome tedesco e un nome italiano: una casuale inopinata reminiscenza di un “asse” di tristissima memoria.
Peccato che, ancora una volta su queste e altre notizie scomode la nostra stampa e i nostri telegiornali attuino una sorta di auto-censura preventiva: semplicemente: non sono notizie.
Eppure ne va della sicurezza dell’Europa, oltre che del nostro Paese. Mentre il buon Conte seraficamente conduce colloqui più o meno infruttuosi con le parti in lotta nella Libia, incontrandosi ora con Haftar ora con Sarraj, i due arcinemici, la stampa italiana tace per esempio del nostro coinvolgimento diretto nella guerra libica: dalla base di Sigonella partono ogni giorni droni armati americani in missione di guerra sulla Libia, senza naturalmente che le nostre autorità siano informate sugli obiettivi bombardati. Poche settimane fa, a fronte dello sgarro che l’Italia ha fatto all’America firmando il protocollo d’accordo con la Cina per “la nuova via della seta”, gli americani a mo’ di risarcimento hanno preteso dall’Italia una presa di distanza ufficiale dal governo Maduro (altra “canaglia”…), cosa prontamente eseguita dal buon Conte. Ma altre fonti hanno precisato che ben di più gli Americani avrebbero chiesto al nostro governo, tra cui persino il dislocamento di 2.000 uomini dell’esercito italiano in Siria, a far compagnia oltre cha agli americani e ai curdi anche alle varie milizie jihadiste e qaediste o dell’ISIS che si stanno ri-schierando da quelle parti. E che dire delle migliaia di soldati italiani ancora in Afghanistan e Iraq, sotto il comando unificato NATO a guida USA? In caso di guerra all’Iran, dove verrebbero schierati?
Su questi temi delicati il governo tace (e certo non potrebbe fare altrimenti), ma la nostra stampa? Che razza di giornalismo abbiamo in Italia? Sarebbe questa la stampa libera e che garantisce un’informazione completa?