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“Il teatro è un edificio”

Intervista a Filippo Andreatta direttore della OHT – Office for a Human Theatre, compagnia attiva a Rovereto dal 2008

“Little Fun Palace”

Una piccola realtà professionale trentina che opera nel territorio, ma si fa largo anche in Italia e all’estero. Parliamo di OHT – Office for a Human Theatre, compagnia attiva a Rovereto dal 2008 e diretta da Filippo Andreatta, formazione da architetto e specializzazione in arti visive e performative. Il collettivo fa della multidisciplinarietà la sua ragione d’essere: le sue produzioni si pongono tra performance e installazione, concependo il teatro come ricerca sullo spazio.

Si inserisce in questo solco “Little Fun Palace”, ultima creazione a firma OHT, che ha avuto la sua première tra il 6 e il 15 settembre a Roma al festival Short Theatre, ospitata tra i progetti in residenza. Il lavoro è stato riproposto tra il 21 e il 23 settembre al Terni Festival, e dal 6 dicembre al prossimo 28 aprile sarà di nuovo nella capitale, stavolta al MAXXI.

Il progetto si ispira al celebre Fun Palace sviluppato nel 1961 dall’architetto Cedric Price e dalla regista teatrale Joan Littlewood, un’idea che mirava a scardinare il concetto di staticità del teatro rendendolo flessibile, portandolo tra le persone, coinvolgendole in rappresentazioni e dibattiti, stimolandole a partecipare attivamente. Anche in questo caso, un incontro fra teatro e architettura.

Abbiamo colto l’occasione di questo esordio per conoscere meglio OHT attraverso il suo direttore artistico Filippo Andreatta, cercando di cogliere in cinque domande il suo modo di intendere il teatro e la creazione artistica.

Cosa vuole essere Little Fun Palace?

Little Fun Palace è un progetto che cerca di incentivare l’avvenire di attività, il succedere delle cose in spazi pubblici. Una roulotte che si modifica con diverse attività, come incontri con specialisti (astrofisici, decoratori, artisti, scrittori), workshop, dj set, cinema outdoor. Una piccola roulotte “scenografata” che cambia a seconda della situazione e che viene creata insieme ai collaboratori e ai festival e ai musei che ospitano il progetto. Siamo stati a Modena per un test, per poi debuttare a Short Theatre a Roma e quindi andare al Terni Festival. Saremo al MAXXI di Roma da dicembre ad aprile, creando una serie di eventi sia al museo che nella periferia di Roma Est. Le attività sono molto eterogenee, ma il pubblico reagisce sempre molto bene.

La tua arte congiunge architettura e arti performative. Cos’è per te il teatro? E, allargando gli orizzonti, l’arte?

Il teatro, per me, è anzitutto un edificio. Un edificio in cui avvengono delle attività coreutiche, in cui ci sono o non ci sono delle persone, in cui si sono delle immagini. È soprattutto il luogo dello sguardo: è nella radice della parola stessa. Cos’è l’arte? Non so rispondere, è una domanda troppo vasta. Forse è quella cosa in cui è possibile rendere visibile l’invisibile, quell’istante in cui si riesce a vedere al di là di quello che c’è.

Come nascono i tuoi lavori?

Filippo Andreatta

Credo che la parte creativa del processo artistico stia negli scarti della propria routine. C’è una routine giornaliera in cui si lavora, si studia, si scrive; sono attività regolari che vanno svolte affinché, tra l’una e l’altra, in determinati istanti, accadano le idee. In quegli scarti nascono i progetti di OHT. Una sorta di “smarginatura”, per usare una parola letteraria che andava molto qualche estate fa. Poi dipende dai lavori in sé: non c’è una regola, proprio perché ognuno nasce dallo scarto di una routine che ci si deve anche imporre, affinché queste idee possano nascere.

Dicevi prima che “il teatro è un edificio”. Mi pare un punto interessante il fatto che i tuoi progetti siano una ricerca sullo spazio, tant’è vero che in alcuni casi ne presenti anche senza attori.

Credo che il teatro abbia a che fare con lo spazio ancor prima che con il tempo. È un fatto di presenza, di come le cose o le persone stanno nello spazio, e di come la loro presenza definisce lo spazio in relazione con gli spettatori. Per questo secondo me lo spazio è molto importante nella produzione teatrale e artistica.

Infine, una curiosità: la tua compagnia si chiama OHT – Office for a Human Theatre. Perché questo nome?

“Human Theatre” è un’appropriazione indebita. Viene da un testo di Giorgio Strehler, fondatore del Piccolo Teatro di Milano: “Per un teatro umano”, un libro molto bello in cui parlava della componente umana della pratica teatrale, e di come questo poteva essere espresso. Una delle cose che mi affascinano molto dell’arte è proprio come esprimere la presenza umana anche in virtù dell’assenza di performer o attori. E questo effettivamente è possibile. “Curon / Graun”, ad esempio, è uno spettacolo che trapela umanità; pur non essendoci nessuno in scena, ci sono tutti in scena – i fantasmi, gli abitanti... anche se effettivamente in scena c’è solo un campanile. Quest’aspetto magico, epifanico, meglio ancora fantasmatico, mi interessa molto. E poi “Office” perché c’è tanta routine nel lavoro che facciamo, tanta pratica d’ufficio. Ci piaceva molto avere nel nome sia una parte più artistica che una più fattiva.

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