“The Pride” e “MDLSX”
Due viaggi intorno alla sessualità
Due storie parallele a quasi sessant’anni di distanza. 1958: un marito, una moglie, il collega della moglie, uno psicologo. 2017: un amico, un’amica, il compagno dell’amico, il datore di lavoro. Nella prima la moglie intuisce e scopre i tradimenti di suo marito, ne chiede conferma al suo collega che ne è la causa. L’omosessualità non viene mai nominata se non davanti a un medico specialista, per essere curata. Nella contemporaneità la storia si ripete, ma cambiano le postazioni.
C’è sempre una persona ferita e tradita, stavolta però non è la donna, ma il compagno gay. La presenza femminile non è più compagna acuta, sofferente e silente, ma amica confidente e rassicurante. Di omosessualità nel 2017 si può parlare, non c’è più lo psicologo da cui cercare un rimedio, ma un datore di lavoro aperto e navigato che chiama le cose e le persone col loro nome e non si scandalizza. Nel passaggio e nel ritorno da una storia all’altra cambiano il tempo e il genere, ma il numero e il verbo rimangono uguali. In entrambe tutti hanno un motivo per soffrire, per essere inquieti e in entrambe ci sono due uomini che si scambiano dei sentimenti, che hanno una relazione. Per la regia di Luca Zingaretti, dal fortunatissimo testo di Alexi Kaye Campbell, andato in scena il 13 gennaio scorso al Teatro Sociale, “The Pride” sembrerebbe dunque un’opera teatrale sulle scelte sessuali, sull’evoluzione dei tempi che ha portato a una maggiore libertà di espressione e di accettazione. In realtà lo spettacolo non parla propriamente di questo. La rotazione dei personaggi che coglie gli estremi di un arco temporale che sicuramente vede cambiare ed evolvere il concetto di sessualità, parla di ciascuno e ciascuna, parla di tutti: a guardar bene parla di noi e di quanto siamo capaci di compiere delle scelte difficili, di quanto riusciamo a sentirci liberi e a specchiarci in ciò che realmente siamo, che può essere diverso da ciò che appariamo agli altri. Il ferimento, il tradimento, lo smarrimento appartengono a tutti gli esseri umani. La differenza tra le due storie sta nel fatto che la sessualità può finalmente oggi avere dei nomi, non deve essere taciuta o curata, può anzi essere urlata: i tre protagonisti contemporanei si ritrovano nella scena finale per partecipare al Pride, dove il corpo verrà gridato, mostrato, esibito a squarciagola. Questo non vuol dire che la seconda storia abbia un fine più lieto e una strada spianata. Se occorre urlarla, significa che l’omosessualità ha ancora bisogno di farsi capire, ascoltare.
Molto bravi e credibili i quattro attori, capaci di una recitazione fresca e di un’interpretazione non stereotipata, ma convincente e coinvolgente nel passaggio da un personaggio all’altro e da un tempo all’altro, pur in una forma teatrale conosciuta e tradizionale.
A distanza di pochi giorni, il 18 gennaio, in un altro spettacolo questa volta all’auditorium Melotti di Rovereto, per la rassegna “Altre Tendenze”, in una veste decisamente non tradizionale, Silvia Calderoni decide di farsi ascoltare, di urlare la sua sessualità. Senza mezze misure, dal primo minuto di gioco inchioda tutti e tutte con l’immagine di sé, di un prima e di un dopo che appaiano contemporaneamente sulla scena: vecchi filmati che raccontano la sua vita, la sua adolescenza e che attraversano il cambiamento, parlano in un oblò sullo sfondo mentre il suo corpo androgino, spoglio e senza pudore, mostra il presente cambiato e ancora in movimento. Quella di “MDLSX” è la storia di un’ambiguità sessuale, che indica una sorta di margine sfalsato e in continuo spostamento tra ciò che sembra e ciò che è, tra ciò che dovrebbe essere e ciò che riesce a essere.
La storia messa in scena è un’osmosi perfetta e indistinguibile tra l’autobiografia di chi è sul palco e il testo di Geffrey Eugenides “Middelsex”, che racconta la vita di un ragazzo che era una bambina. Il libro costituisce la traccia sulla quale si muove lo spettacolo, nella quale la protagonista entra ed esce senza distinzione tra realtà e finzione.
Un attacco in pieno volto alla consuetudine del nostro modo di vedere e delle nostre percezioni che non riguarda solo la sessualità, che pure nello spettacolo è il soggetto parlante e urlante, ma che riguarda, anche qui, il terreno su cui tutti ci muoviamo, la maniera in cui ci percepiamo e veniamo percepiti, la nostra costante e inevitabile ricerca della forma giusta, esteticamente conforme al comune senso della bellezza e di ciò che è appropriato. Una sfida alla forma imposta dai confini dello sguardo altrui, dal nostro corpo e dalle nostre leggi. La “performance-mostro”, come viene definita nel dépliant di presentazione, non parla solo di omosessualità, femminilità, mascolinità, ma di come sia doloroso conciliare ciò che ci viene comunicato di essere già alla nascita e che via via ci viene richiesto mentre cresciamo e ci muoviamo fra gli altri, con ciò che davvero sentiamo di essere, con la percezione che noi, non gli altri, abbiamo della nostra essenza. Uno spettacolo che mischia il Dj/Vj set con la recitazione e con l’utilizzo di una telecamera che filma e proietta ciò che chi guarda da lontano, lo spettatore, non può vedere.
Parte fondamentale e portante sono le musiche che spaziano dai Placebo ai Vampire Weekend, passando per Sixto Rodriguez e Stromae, che catturano lo spettatore coinvolgendolo ed emozionandolo in modo irrimediabile a quanto accade sulla scena. Il risultato è sorprendente: Silvia Calderoli è superba, commovente e allo stesso tempo dura e senza scampo. Grande la regia della compagnia Motus. “È il momento giusto per il cambiamento, perciò, per favore, lasciami fare quello che voglio stavolta”; queste le parole della canzone degli Smiths che chiude con un grande impatto emotivo la scena, lanciando un chiaro monito: cambiare non è impossibile, ma necessario e inevitabile.