Voglio vivere normale
Gay e Lesbiche di Trento chiedono di poter vivere serenamente la loro esistenza. La società trentina ha gli strumenti per accogliere la loro richiesta e diventare davvero inclusiva?
Ci siamo lasciati alle spalle un settembre arroventato dalla discussione in Consiglio Provinciale della legge contro l’omofobia. Ciò che resta è una gran confusione che non porta vantaggio a nessuno, men che meno a quelle persone che di quella legge avrebbero davvero bisogno, ossia gli LGBT (acronimo che sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) residenti in Trentino, che gradirebbero vedersi riconosciuto, prima di tutto il resto, il diritto ad avere una vita normale. Ma come vive in Trentino un gay o una lesbica? Che difficoltà incontra? Cosa manca al nostro territorio perché possa definirsi inclusivo?
ArciGay e omofobia
Se vogliamo disegnare una mappa dell’omofobia in Trentino, troviamo un dato su cui tutti i nostri interlocutori concordano: per un gay o una lesbica è più facile vivere la propria quotidianità nelle zone urbane piuttosto che in quelle montane o di valle. In tutto il mondo le zone a economia agricola sono più lente nell’incorporare il progresso culturale, e il Trentino non fa eccezione in questo. Nelle zone montane il sospetto o il rischio di essere bollati come “omosessuali” e quindi emarginati è molto più elevato che in città.
Ma si respira aria differente anche fra Trento e Rovereto. Secondo Donatello Baldo, responsabile della comunicazione di ArciGay Trentino “per mia esperienza posso dire che la mia città, Rovereto, ha un substrato culturale molto avanzato: la presenza storica di una sinistra intellettuale forte, ha dato alla città una matrice di tolleranza piena nei confronti delle diverse identità sessuali. Trento invece ha forti legami culturali con la Chiesa cattolica, con il risultato di apparire decisamente più conservatrice a livello culturale. Ne risulta una città sicuramente tollerante, ma con una sfumatura che tende più verso il pietismo cristiano”.
In ogni caso, il taglio più metropolitano delle due città, con l’Università e le associazioni, riduce parecchio la probabilità di sentirsi discriminati in casa propria.
Continua Baldo: “In Trentino manca uno strumento di intervento mirato per combattere gli stereotipi e sconfiggere il bullismo omofobico. In valle, a differenza della città, l’omosessuale non ha la possibilità di appoggiarsi a qualcosa se viene respinto dai familiari nel momento del coming out” (il momento in cui la persona dichiara apertamente il proprio orientamento sessuale).
La legge contro l’omofobia potrebbe proprio servire a questo: per Baldo il fenomeno è in aumento e c’è bisogno di “personale formato che possa intervenire su disagi derivanti da omofobia”, altrimenti si rischia “la regressione sociale e culturale”. Se si riuscisse a fare accettare a tutti che “l’omosessualità è una variabile naturale dell’affettività umana e non una scelta deliberata dell’individuo”, potremmo registrare un bel passo avanti nel progresso culturale e sociale del territorio.
Modelli di riferimento non mancano. Senza spingersi fino al paradiso terrestre del Nord Europa, dove “gli assistenti sociali entrano nelle scuole, individuano il leader del gruppo e lo formano alla tolleranza”, a Roma c’è una collaborazione tra Acli, Arcigay e altre associazioni che riguarda le tre forme di bullismo (sessualità, etnia e disabilità) e che partecipa a progetti di formazione nelle scuole di educazione alla tolleranza.
Vivere la propria identità sessuale: la storia di Shamar
Shamar Droghetti è il coordinatore della sezione giovani di Arci Gay. È di Merano, a Trento si è laureato e ci lavora da diversi anni.
Ho avuto le prime sensazioni di essere omosessuale intorno alla prima media. Fu un anno di vero e proprio black-out. Facevo fatica a studiare e ad andare a scuola.
Iniziai a leggere libri sull’omosessualità in biblioteca. Solo in biblioteca, però: il coraggio di prendere il libro e portarmelo a casa non lo avevo. Temevo di essere in qualche modo bollato.
A scuola, ovviamente, fui bocciato. Ma avevo superato il primo scalino, l’accettazione di me: ero omosessuale e non potevo scegliere di cambiare.
Alle scuole superiori ho continuato a tenere riservata la mia omosessualità. Non ho mai subito attacchi fisici, ma attacchi verbali, che mi ferivano di più, tanto che lo spogliatoio di Educazione Fisica era diventato un luogo di estremo disagio. Avevo paura anche solo ad alzare lo sguardo pur di non subire qualche offesa.
Anche le lezioni di italiano erano un problema: avevo un insegnante di italiano molto cattolico, a causa del quale mi sentivo in obbligo di censurare le mie opinioni nei temi scritti.
Era l’epoca in cui cominciai a frequentare locali gay. Di tanto in tanto uscivo dal locale per fumare: rischiavo di essere visto dai miei compagni di classe, e ciò mi provocava un’ansia che sfociava in un reale malessere fisico. Credo che siano queste le piccole cose che ti permettono di dire se il territorio in cui vivi è davvero inclusivo.
Giunto in quarta superiore, avevo deciso di vivere la mia sessualità senza problemi. Lo scontro con il docente di italiano si fece sempre più aspro: le posizioni che esplicitavo nei temi scritti contro l’omofobia della Chiesa comportarono una serie di discussioni e valutazioni negative. Ma mi stavo affermando e quindi riuscii a superare quelle difficoltà.
Venne il momento del coming out con la famiglia. Premetto che in quegli anni non ho mai nascosto nulla, tanto quanto non ho mai detto apertamente. Quel giorno scoprii che tutta la famiglia sapeva: mia madre aveva letto dei messaggi sul cellulare e mi aveva preparato il terreno. Fu un momento molto forte ed intenso, ma trovai tanta comprensione e affetto, in particolare da mia sorella e da mia nonna.
Posso dire di aver avuto un coming out fortunato, rispetto a tanti altri.Per questo devo molto a mia madre: la mia omosessualità non è mai stata per lei un problema ma un motivo di orgoglio. Da là a diventare attivista di ArciGay poi il passo è stato breve.
Essere Lesbica a Trento: l’affermazione di esistenza
Ilaria Todde è una attivista di ArciLesbica. Studentessa universitaria a Trento, proviene dalla Sardegna.
Scopro di essere lesbica a 16 anni. Faccio un percorso di accettazione abbastanza breve, tanto che ho avuto la necessità di dirlo agli altri, anche per poter cominciare a vivere la mia vita. Non avrei potuto trovare una ragazza se non mi liberavo dall’eterosessualità obbligatoria che la società normalmente impone alle donne.
Quindi il coming out con la famiglia è arrivato di lì a poco. Non temevo lo scontro con mia madre, come si potrebbe pensare: la vera preoccupazione era nei confronti di come avrebbe reagito la società.
Quando sono arrivata a Trento avevo già vissuto il percorso di accettazione di me stessa in Sardegna. Sono stata fortunata perché sia in famiglia che nella città in cui vivevo non ho avuto modo di sentirmi diversa. Giravo tranquillamente per Nuoro mano nella mano con la mia ragazza, e non avevo nessun problema. A Trento mi aspettavo una mentalità più aperta, rispetto alla mia città del Meridione, ma non è stato così: sentivo sguardi e commenti pesare su di me, e la cosa mi ha molto colpito, quasi scioccata.
A Trento ho trovato molte persone che non sapevano come comportarsi: nel momento in cui dichiaravo il mio essere lesbica, trovavo reazioni per lo più di sorpresa, come se fosse una cosa che si deve necessariamente legare a sensi di colpa. In Trentino ho ritrovato, in forma più radicata, quel problema dell’obbligo di eterosessualità di cui mi ero liberata in adolescenza.
Forse c’è una spiegazione a tutto questo. Esiste una sostanziale differenza tra l’omosessualità maschile e quella femminile: il concetto di vero uomo è chiaramente definito e di conseguenza è definita chiaramente anche la sua violazione, riconoscendo l’esistenza della figura del gay. Per la donna, invece, la società impone la presunzione di eterosessualità: non è concepibile neanche lontanamente l’esistenza di una donna lesbica.
Ciò implica che la lesbica deve lottare non solo contro l’omofobia, ma anche contro la negazione della propria esistenza. Per questo motivo ci tengo a che mi si definisca lesbica e non donna omosessuale, perché ciò permette di affermare la mia esistenza.
La conquista della normalità
Dall’indagine di queste pagine risulta un Trentino certamente meno omofobo di quanto mostri la sua classe politica.
Tuttavia restano ancora margini di miglioramento?
Alla domanda risponde il già citato Donatello Baldo: “Finché non si vedranno transessuali alla cassa del supermercato o un direttore di una cooperativa che porta il proprio compagno alla cena dei soci non si può parlare di un Trentino completamente inclusivo”.