La Grande Guerra di Montale, in Vallarsa
Un affresco ricorda a Valmorbia la poesia compresa in “Ossi di Seppia”
Scendendo la strada provinciale n.46 del Pasubio, dal vicentino Pian delle Fugazze verso Rovereto, in destra Leno, a metà percorso il viaggiatore scorge alla sua destra - per un attimo - un affresco che copre tutto il fianco dell’edificio di una ex scuola elementare, dominante la strada dall’alto. Siamo nella frazione di Valmorbia, nel Comune di Vallarsa: poche antiche case lungo la via e qualche muro sassoso anche sopra, mentre sotto la valle precipita scabra e scoscesa, con un salto di varie centinaia di metri, sulle impetuose acque del torrente Leno, in corsa (come il viaggiatore) verso Rovereto, dove confluisce nell’Adige.
Il viaggiatore inconsapevole, sorpreso dall’improvvisa apparizione, ha appena il tempo di riconoscere - prima che l’ennesima curva sottragga alla vista la visione - un cielo scuro attraversato da nuvole e dominato da un quarto di luna, in cui si apre qualcosa di simile a fuochi d’artificio. Si tratta del lavoro che il pittore giapponese Hideo Sakata (scomparso nel 2010) ha realizzato, insieme alla moglie Yumiko, a ricordo dei caduti della Prima Guerra Mondiale in Vallarsa, ispirandosi alla celebre poesia “Valmorbia” di Eugenio Montale, compresa nel suo primo volume di versi “Ossi di seppia”, del 1925. Uno dei libri di poesia più importanti del XX secolo, in cui “Valmorbia” è l’unico labile ricordo della Grande Guerra, vissuta dal poeta come ufficiale di fanteria proprio qui, di stanza sul lato opposto della valle, nella zona di Matassone in mani italiane, mentre la fronteggiante frazione di Valmorbia era invece dall’altra parte del fronte, quella austro-ungarica.
Della Grande Guerra la letteratura ci ha lasciato ricordi drammatici, basti citare il celebre verso della poesia “Soldati” dell’altro poeta-combattente, Giuseppe Ungaretti, compresa in “Allegria di naufragi”, del 1919: “Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie”: lirico, ma agghiacciante nell’esprimere la sospesa gratuità dell’esistenza in guerra. Niente del genere invece nella poesia di Montale, nessuna neppur vaga allusione agli oltre 16 milioni di morti. Gli spari “tacevano”, unica traslata immagine dei combattimenti è quella dei razzi d’avvistamento che sbocciano nella notte, come ludici fuochi d’artificio, ripresa filologicamente nell’affresco che rende puntualmente la lettura onirica che dà Montale del loro “fioco” lacrimare nell’aria.
Le immagini della poesia di Montale non sono riprese direttamente dall’esperienza sul campo, ma vengono recuperate - filtrate potremmo dire - da una “scialba memoria”. Lo spavento della guerra è, nonostante i pochissimi anni trascorsi, già lontano; la vita è ripresa, e il poeta canta nella poesia l’emozione per la sua vita graziata, la commozione della sopravvivenza, nonostante tutto. Le circostanze di questa sopravvivenza individuale sono più forti del dramma storico: “l’oblio del mondo” vissuto al fronte è già diventato oblio della guerra, è la vita che rifiorisce dopo il pericolo d’annientamento, e trasfigura poeticamente le concrete figure di quella sopravvivenza. Resta nella mente il suono del “Leno roco”, e la luce soffusa delle “notti chiare” che “erano tutte un’alba”. Spunta anche un’animale totemico, quella volpe che lo raggiunge a notte nella sua caverna militare, presagio di una promessa di sopravvivenza.
È sicuramente un buon esempio del modo come gli italiani sopravvissuti hanno elaborato (poco) quell’esperienza, fino a trovarsi un paio di decenni dopo intrappolati quasi inconsapevolmente in un’altra micidiale guerra. Si chiama ‘rimozione psicologica’, fa sbiadire la consapevolezza. Così ancor oggi rimuoviamo l’art.11 della Costituzione: “l’Italia ripudia la guerra”, uno dei frutti migliori della guerra successiva.
Valmorbia, discorrevano il tuo fondo
fioriti nuvoli di piante agli àsoli.
Nasceva in noi, volti dal cieco caso,
oblio del mondo.
Tacevano gli spari, nel grembo solitario
non dava suono che il Leno roco.
Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco
lacrimava nell’aria.
Le notti chiare erano tutte un’alba
e portavano volpi alla mia grotta.
Valmorbia, un nome – e ora nella scialba
memoria, terra dove non annotta.