Grand Hotel Budapest
Una recensione difficile
Gustave H (Ralph Fiennes), leggendario concierge in un famoso hotel europeo tra le due guerre mondiali, stringe amicizia col giovane impiegato Zero Moustafa (Tony Revolori), che diventa il suo protetto di fiducia. Ingiustamente accusato dell’omicidio di un’anziana signora, Gustave coinvolge Zero nel furto, e successivo rocambolesco recupero, di un dipinto rinascimentale di inestimabile valore. Implicati nell’efferata battaglia per l’appropriazione di un enorme patrimonio familiare, i compari si agitano romanticamente solidali sullo sfondo degli sconvolgimenti che hanno trasformato l’Europa nella prima metà del ‘900.
È tutto il giorno che dovrei scrivere una recensione di “Grand Hotel Budapest” di Wes Anderson, ma non mi viene niente da dire. È carino, divertente, piacevole, formalmente curatissimo, ancor più di “Moonrise Kingdom”, ma tutto qui. Secondo me non dice niente e non vuole dire niente. Non va al di là di se stesso, quello che si vede è quello che è.
A me sta bene così. Ma poi come si fa a scriverne qualcosa, trovare un senso, un messaggio, una ragione? Non so. Devo sforzarmi di vedere cose che chissà se ci sono? Magari ci sono. Ma no, non ci sono.
Il film scorre simpatico e bislacco tra belle immagini, stereotipi di un’inventata Europa dell’est in un passaggio chiave del ‘900 e tanti attori famosi in gara tra loro per chi è meno riconoscibile e più camuffato dal trucco. Grande scioltezza, grazia ironica, eccessi calligrafici.
Ecco, questo è il film: una stramba fiaba novecentesca per adulti, anche molto meno giustificata di certo Tim Burton, che almeno rivede tradizioni, reinventa mostri e paure. Qui no.
Non so se devo leggere altre recensioni per farmi venire delle idee. Sicuramente i critici faranno di tutto per trovarci significati altri, è la loro specialità, e poi davanti ad un “autore” mica ci si può fermare alla superficie. Ma per me è solo questo, superficie, senza pretendere di essere altro. Per quanto bella e piacevole, ma sempre superficie. Quindi che dire? Certo è strano che un ragazzone del Texas faccia un film ambientato tra il 1935 e il 1985 in un immaginario paese dell’est Europa che passa dalla decadenza imperiale al socialismo reale, pieno di personaggi, attori, colori, finzioni teatrali, animazione di cartone, ecc. È strano ma è così. Belle le scenografie dell’hotel, perfetti i costumi della solita Cannonero, eleganti e curiose le inquadrature, ancorché sul filo di un artificioso formalismo che miracolosamente non scade (quasi) mai nell’autocompiacimento. Insomma, il solito cinema di Anderson, un po’ più esasperato forse, ma lo stesso dei “Tenenbaum” e “Il treno per Darjeling” appena un passo più in là. Originale, unico, pieno di personaggi stralunati, curiosi a spesso bidimensionali come nei cartoni animati. Una festa visuale dove, tra fantasia e realismo, batte tutti il surrealismo.