Mons. Rogger, uomo di Dio e di potere
L’illustre storico recentemente scomparso nella testimonianza del sociologo Pier Giorgio Rauzi, suo amico di vecchia data.
I giornali locali hanno dedicato pagine e pagine alla morte di Monsignor Iginio Rogger. Per una volta l’informazione è stata completa e la figura del grande storico trentino è stata analizzata senza troppi panegirici. Difficile scrivere qualcosa di originale. Ci affidiamo allora alla memoria di un amico di lunga data di Rogger, Piergiorgio Rauzi, ex prete e docente a Sociologia. La sua vicenda intellettuale e biografica si può dire che si sia snodata parallelamente a quella del Monsignore, incrociando le medesime questioni, seppur analizzandole e risolvendole in maniera diversa. Attraverso particolari inediti, dalle parole di Rauzi emerge il Rogger che tutti conoscevamo, acuto e attento, disponibile e ironico. Un personaggio di cui sentiremo la mancanza.
Professor Rauzi, si è detto che Monsignor Rogger era “un uomo di Dio e di potere”. Secondo lei Rogger era per davvero un uomo di potere?
“Certamente lo è stato per lungo tempo e in molti settori, ecclesiastici e non. E come succede quasi inevitabilmente, il potere e l’umanità di una persona si dislocano su posizioni e in proporzioni inverse. Con l’uomo e l’ecclesiastico di potere i miei rapporti, a partire dalla fine degli anni Sessanta, sono stati piuttosto rari, freddi e qualche volta conflittuali. Negli ultimi quindici anni, poco più poco meno, invece, a mano a mano che le sue posizioni di potere venivano meno, sono diventati sempre più frequenti, caldi e spesso consonanti”.
Ha qualche ricordo degli anni in cui Rogger ricopriva posizioni di potere?
“Tramite mio fratello don Giuseppe, che, dalla parrocchia delle Visitazione di Bolzano, trovava in don Rogger un referente sempre disponibile a confrontarsi su molte delle questioni storiche, teologiche, bibliche e pastorali che le situazioni proponevano, ho trovato la strada di casa sua sempre più cordialmente accolto. Fu così che insieme venimmo a conoscenza - io da mio fratello e lui da mons. Bressan - della testimonianza di monsignor Tscholl, teologo di Bressanone, che raccontava per iscritto le trame del sottobosco clericale trentino in combutta con i politici democristiani di allora, i quali facevano respingere da Segni presidente della Repubblica la nomina di don Bruno Vielmetti a vescovo di Trento nel 1963. Una vicenda che io ho cercato di rendere pubblica, ma che non ha sfondato sui media locali, dove alla cronaca quotidiana a cui sono dediti la storia come ‘magistra vitae’ non interessa più di tanto”.
Rogger non era soltanto attento alle grandi questioni storiche e politiche, ma cercava di essere innovatore anche nel quotidiano. Può raccontarci qualche sua esperienza diretta?
“Don Iginio ci è stato anche accanto in un momento particolarmente significativo per la nostra famiglia (come vede, qui devo parlare alla prima persona plurale). Quando, infatti, dieci anni fa nostro figlio, ormai adulto e professionalmente impegnato nel suo lavoro di ingegnere, chiedeva il battesimo (visto che noi, credenti praticanti, non abbiamo battezzato i nostri figli da infanti ritenendo il battesimo un impegno che ciascuno deve poter scegliere con conoscenza di causa), fu don Rogger a risolvere i problemi burocratico-canonici che la volontà di impartire quel sacramento non in parrocchia, ma nella comunità di San Francesco Saverio dove i nostri figli sono cristianamente cresciuti, sembrava ostacolare”.
Cosa ci può dire di questi ultimi anni?
“Negli ultimissimi tempi, i rapporti personali si sono fatti sempre più frequenti. Cominciavano di solito nella sacrestia del Duomo dopo la messa delle ore nove per trasferirsi al bar a prendere il caffè e poi, dopo un breve passaggio al museo diocesano, finalmente a casa sua, nel suo studio. Là le chiacchierate duravano ore e ore: stavamo seduti a parlare dei problemi di attualità e delle reciproche curiosità intellettuali, politiche, sociali e religiose; ragionavamo su una fede cristiana che giocoforza e provvidenzialmente è sempre più costretta a confrontarsi con una società secolarizzata, multietnica e multireligiosa. Società, questa di oggi, che col Trentino pre-moderno, caro solo a pochi nostalgici che selezionano la memoria secondo il loro tornaconto, ha sempre meno a che fare. Negli ultimi mesi infine la preghiera, anche nei nostri incontri, segnava un progressivo distacco dalle cose di questa terra e dalla sua storia per preparare quel passaggio che lui mi sottolineava una mattina nelle ultime parole dell’Ave Maria dall’adesso all’ora della nostra morte”.
Che posto avrà l’eredità intellettuale di Rogger?
“Non sono in grado di prevederlo, anche se alcune premesse non mi sembrano granché incoraggianti. La stessa elaborazione liturgica del lutto in Duomo affidata a una persona scelta per il ruolo gerarchico ricoperto nel capitolo dei canonici, mi è sembrata poco interessata a questa eredità. Formalmente ineccepibile l’omelia riferita alle letture bibliche solennemente proclamate, ma anodina e adatta a chiunque fosse lì contenuto nella bara in attesa della resurrezione. Fra i tanti preti partecipanti al rito funebre ritengo fosse difficile trovarne uno che certamente non avesse avuto Rogger come docente di storia ecclesiastica e liturgia. C’è stato poi un piccolo particolare difficilmente coglibile dai non addetti ai lavori. Era ovvio, purtroppo, che il vescovo disciplinatamente leggesse l’inserto sacrificale nelle parole del canone della Messa che invece Rogger tralasciava rifacendosi all’edizione latina fedelmente tradotta in tutte le lingue moderne fuorché nella versione in lingua italiana dove qualcuno l’ha voluto inserire. E sì che monsignor Bressan, girando per il mondo, l’avrà pur recitato nella traduzione corretta delle altre lingue, ma forse, data la sua formazione nella diplomazia vaticana, si sente più un funzionario del sovrano pontefice che un successore degli apostoli, i quali hanno sempre usato la formula come suona nei vangeli. In parole povere, si è piegato l’insegnamento di Rogger a una ‘fedeltà’ alla tradizione ormai arrivata fuori tempo massimo”.
Ma ci sarà almeno un posto per conservare la sua eredità?
“Non so se lei si riferisce a un luogo fisico, quello che altri in questi giorni, anche sulla stampa locale, auspicano per l’archivio di monsignor Rogger e di quanto lui custodiva nelle sue capaci stive e di cui era geloso custode. Mi auguro che almeno e/o soprattutto trovi posto nella memoria e nella prassi di vita di quanti lo hanno conosciuto e stimato (e, per quel che mi riguarda, amato), specie per la sua libertà interiore e per il suo amore per la verità anche nei suoi risvolti scomodi e problematici”.