Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 11, novembre 2011 Servizi

Molte parole dure, pochi fatti concreti

La pedofilia clericale e la reazione delle gerarchie

Mi sembra significativo l’emergere di queste memorie di pedofilia clericale, postumo rispetto ai responsabili dei crimini e tardivo da parte delle vittime. Evidentemente qualcosa è cambiato perché sia diventato possibile sottrarre all’occultamento, al silenzio e all’oblio i fatti che Questotrentino ha riportato, ma che ormai emergono su scala ben più ampia sì da coinvolgere le strutture clericali della Chiesa cattolica che fino a pochi anni fa era riuscita a spazzare il fenomeno sotto il tappeto. Non ritengo sia questa la sede per individuare in che cosa consista il cambiamento di questi ultimi anni. Ha avuto di sicuro un peso rilevante la giurisprudenza di quei paesi come gli Stati Uniti che prevedono la possibilità di monetizzare le pene, anche se questo può comportare qualche volta il sospetto di meccanismi ricattatori e di tornaconto non sempre facilmente dimostrabili e magari non riconducibili alle sole e sacrosante esigenze di verità e giustizia. Alcune diocesi degli Stati Uniti hanno dovuto svenarsi finanziariamente per i risarcimenti alle vittime a cui sono state condannate. Ma una volta saltato il tappo, il fenomeno della pedofilia clericale ha cominciato a venire alla luce e a essere denunciato anche in molti altri paesi dove la pena pecuniaria o non è prevista o è assai meno onerosa.

È stato così giocoforza per la gerarchia ecclesiastica sia locale che centrale vaticana accorgersi che i meccanismi di occultamento non solo non funzionavano più, ma addirittura finivano con l’aggravare il fenomeno caricandolo di complicità e responsabilità istituzionali non più giustificabili. Comincia così una specie di scaricabarile e di palleggiamento di responsabilità tra centro e periferia, accompagnato anche da qualche tentativo maldestro di trasformare documenti che avocavano ad autorità centrali il trattamento dei vari casi sparsi nel mondo ecclesiastico, in documenti di denuncia del fenomeno. La soluzione poi che sembra prevalere oggi di affidare al braccio secolare i colpevoli di questi crimini, perché possano essere processati e condannati dalle leggi statali di competenza, sembra piuttosto somigliare a uno sbrigativo lavarsene le mani, lasciando i singoli soggetti colti con le mani nel sacco a rispondere delle proprie azioni criminose.

È a questo punto che diverse associazioni di vittime dei preti pedofili costituitesi in Italia hanno lanciato un appello alla Chiesa cattolica italiana, a margine della riunione del Consiglio permanente della Conferenza episcopale (26-29 settembre scorsi) in cui si dice che le vittime della pedofilia ecclesiastica “hanno bisogno di verità e giustizia e non di parole vuote e pubblico rammarico, che lasciano il tempo che trovano”.

L’occasione per questo appello è stato l’esame della prima bozza delle linee guida antipedofilia, in attuazione delle indicazioni inviate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede a tutte le Conferenze episcopali del mondo. L’appello - “Verità e giustizia per i sopravvissuti e le vittime degli abusi sessuali sui minori da parte del clero, dei religiosi e delle religiose della Chiesa cattolica” - (l’appello e l’elenco delle associazioni firmatarie sono riportati da varie agenzie di stampa) invita i vescovi italiani ad abbandonare la via della retorica e dei grandi proclami per misurarsi invece su proposte concrete.

Prima su tutte - scrivono le associazioni - l’istituzione di una commissione indipendente per indagare sugli abusi sessuali commessi dal clero. Questa commissione poi, insieme alla magistratura, dovrebbe avere libero accesso a tutti gli archivi ecclesiastici contenenti “le notizie di reato perseguibili, anche per quei reati caduti in prescrizione”. Un’idea, questa, subito respinta dal segretario generale della CEI mons. Mariano Crociata che, a consiglio chiuso (30 settembre), ha lasciato intendere che i panni sporchi si lavano in casa: “Non c’è ragione, di per sé, di istituire una figura terza; è il vescovo la figura responsabile e attorno a lui si determinano le scelte in questa materia; l’esperienza conferma l’efficacia di questa via”.

Ma l’esperienza delle vittime è assai diversa e non conferma certo l’efficacia di questa via pretesa da mons. Crociata. Senza contare i casi emersi di vescovi pedofili sicuramente non idonei a lavare i panni in casa. Ma non è stata proprio la storia dei panni da lavare in casa la formula collaudata per occultare il fenomeno? Quis custodiet custodes? Chi potrà mai controllare i controllori se non una terzietà indipendente?

Ecco perché le associazioni chiedono alla CEI di imporre “alle autorità ecclesiastiche, compresi tutti i membri del clero, l’obbligo di denuncia delle notizie di reato perseguibili d’ufficio; di farsi promotrice di direttive e norme che prevedano l’imprescrittibilità dei reati sessuali nei confronti di minori compiuti dal clero; di procedere alla rimozione dallo stato clericale di tutti i responsabili di abusi sessuali su minori, seppur caduti in prescrizione, senza alcuna eccezione, rigettando l’infondata distinzione tra casi più gravi e meno gravi”. Richiedono inoltre che le direttive che verranno emanate da queste linee guida “impongano le dimissioni di tutti i vescovi che, seppur informati degli abusi, non abbiano trasmesso le relative notizie di reato alla magistratura”. I firmatari infine ritengono sia necessario che la CEI promuova una seria e approfondita riflessione sulle cause che portano al verificarsi di questi crimini sui minori nella chiesa cattolica.

Se, infatti, questa patologia, che gli esperti collocano tra le più subdole, mimetizzate e pertanto pericolose nei confronti di soggetti indifesi quali sono le vittime, trova la propria origine in un blocco nell’evoluzione psicologica della personalità, ritengo non si debba escludere che questo avvenga proprio a causa della rigorosa e non sempre illuminata formazione degli aspiranti al sacerdozio più attenta a reprimere le pulsioni della sessualità che a incanalarle per le vie più corrette della sublimazione.

Questo però chiama in causa tante altre considerazioni, dalla sessuofobia alla discriminazione di genere (la monocrazia maschile), alla pretesa di essere depositari della conoscenza del bene e del male che porta le gerarchie ecclesiastiche a sentenziare su tutto, dimenticando quanti guai questa pretesa abbia portato all’umanità fin dai tempi remoti di Adamo ed Eva.

Ma per limitarci al nostro problema ritengo che, se di patologia si tratta, la condanna penale dei singoli criminali, pur doverosa, debba rivestire una fattispecie particolare e comportare l’individuazione anche di altre responsabilità, che vanno oltre quella del soggetto individuale e che investono il ruolo e l’istituzione che di questo ruolo lo ha rivestito. Per quel che riguarda il futuro, poi, sarà necessario e doveroso anzitutto individuare le cause (principiis obsta, sero medicina paratur - come dicevano già gli antichi) del fenomeno per evitare di “produrre” ancora e mettere in circolazione soggetti così pericolosi.

Per quel che riguarda il pregresso, invece, le vittime hanno diritto alla giustizia dei risarcimenti e alla certezza che la verità finalmente venuta a galla non sia più occultata per nessuna ragione e in nessun caso.

Ritengo infine che sia da chiarire se questa patologia è guaribile o no. Se lo è, chi si fa carico della cura? Non basterà certo affidare questi criminali al braccio secolare. Se invece non lo è bisognerà mettere questi soggetti in condizioni di non nuocere, pur nella convinzione che non sia il carcere la soluzione più idonea. Ma questo vale anche per molti altri reati.