Il romanzo di Antonio Salvotti
La figura del famoso inquisitore ottocentesco in un libro fra storia e finzione.
Merita l’interesse che sta suscitando, "In nome dell’imperatore" di Fausta Garavini (Cierre, Verona 2008). Il protagonista del libro, il magistrato trentino Antonio Salvotti, è innegabilmente un soggetto affascinante, personale incarnazione di un complesso dramma storico.
L’autrice si accosta alla materia con una strumentazione ricca e nel contempo atipica: traduttrice e critica della letteratura francese, ha al suo attivo altri libri di narrativa, ma non opere storiche in senso stretto. La sua storia di studiosa comprende una lunga consuetudine con le carte d’archivio, con gli epistolari, con i testi autobiografici, e si vede: non è certo millanteria quanto scrive nella nota che conclude il volume: "si ritiene opportuno precisare che tutto quanto è scritto poggia su un’accurata documentazione".
Ma occorre precisare subito: l’adesione ai documenti, dei quali la narrazione è fittamente intessuta, e non solo quando sono esplicitamente citati, è però anche adesione totale al punto di vista del personaggio. I documenti, e i fatti, sono presentati dalla parte di Salvotti; i personaggi che attraversano le pagine sono molti, ma la prospettiva è unica, tutti sono visti e giudicati dall’occhio del protagonista, che è anche quello dell’autrice: o almeno così lascia credere a noi lettori, spiazzati di fronte a una forma narrativa sui generis, non un saggio storico ma nemmeno un racconto di invenzione.
Il "romanzo ottocentesco" della Garavini ci fornisce un ritratto di Salvotti attraente. Il giovane magistrato che scopre con tenacia e intelligenza le fragili trame della cospirazione settaria non è lo strumento fanatico di una repressione voluta dall’alto. Non è mosso da servilismo o da bassi sentimenti: intellettuale pensoso, è avverso alle rivoluzioni e all’unilateralità dei nazionalismi nascenti, alle idee della Restaurazione aderisce per convinzione intima e senza accentuazioni di faziosità reazionaria. Crede davvero nella legge e nell’ordine, svolge il suo ruolo con determinazione ma con misura, distingue le responsabilità, coltiva l’umanità nei confronti dei criminali politici dei quali mette a nudo, con logica rettilinea, le colpe. Glielo riconoscono, alcuni di loro, in lettere perfino imbarazzanti come quelle che gli scrivono Maroncelli e Pellico, per ringraziarlo dei libri che loro procura, prelevandoli dalla sua biblioteca, o delle parole di conforto che riesce a trovare. Non gode delle dure condanne che concludono i suoi processi, anzi si tormenta quando le sentenze risultano più gravi (e più indiscriminate) rispetto alle richieste.
Nella vita privata conosce drammi dolorosi, che affronta con nobiltà: la morte precoce della moglie amata, la pittrice Anna Fratnich, donna di sensibilità moderna; le peripezie del figlio Scipione, patriota di idee mazziniane, incarcerato anch’egli dalla giustizia austriaca –ironia della storia- per le sue posizioni sovversive. Antonio è accorato e rispettoso, affettivamente vicino: ma delle inquietudini del figlio non sembra cercare le ragioni profonde. Qualcosa di analogo era accaduto con i patrioti lombardi e veneti nel ’19-24. Dalle motivazioni che spingono alla congiura i suoi inquisiti Salvotti non si sente mai messo in discussione. Li vede dibattersi in vani tentativi di sottrarsi alla condanna che li sovrasta, ricorrere a fandonie che smonta una a una, avvilirsi in delazioni che rivelano debolezza e bassezza morale. Quali riforme, quali rivoluzioni possono uscire da uomini come questi?
Questo mutamento di prospettiva non è nuovo. Il fortunato libro di Alessandro Luzio che propone per la prima volta, in sede storiografica, la rivalutazione di Salvotti esce all’inizio del secolo scorso, nel 1901. Dieci anni dopo viene pubblicato il documentato volume di uno storico trentino, Augusto Sandonà ("Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg"), meno sedotto di Luzio dalla figura del colto magistrato, ma altrettanto spietato nel disvelare, alla luce delle carte processuali, i comportamenti tutt’altro che eroici di molti dei condannati.
Il romanzo di Fausta Garavini non può essere accusato da nessuno, sotto questo profilo, di scarsa aderenza ai risultati dell’indagine storica, né gli può venir attribuito un anticonformismo di maniera: l’autrice si muove con perizia nel solco di una solida tradizione. L’occasione è buona, se mai, per riflettere ancora una volta su quanta distanza ci sia tra la storia raccontata dagli storici e la vulgata edificante assorbita degli italiani attraverso la scuola di base e i suoi
libri di testo (un medium di efficacia straordinaria, per lo meno fino agli anni ‘60).
C’è un’obiezione di fondo, però. E’ giusto umanamente, è produttivo, è ragionevole far coincidere i profili di Confalonieri, o di Pellico, dello stesso pazzerello Maroncelli e di tanti altri personaggi con quelli che escono dalle carte processuali?
La macchina poliziesca e giudiziaria li mette in una posizione di inferiorità e di gravissimo rischio: le loro parole, i loro comportamenti, anche quando riferiti con la più scrupolosa onestà, non ne escono comunque impoveriti e distorti? E del loro prima e del loro dopo cosa sa davvero il poliziotto? Cosa sa e cosa capisce il giudice, anche il più perspicace? La questione è antica e riguarda secoli e secoli di storia, non solo quella che qui si racconta: senza calarsi nel pozzo oscuro e maleodorante degli archivi giudiziari e di polizia non si potrebbe forse fare storia, ma le precauzioni che occorre prendere per interpretare i risultati dell’esplorazione non sono mai troppe.
Federico Confalonieri è l’aristocratico altezzoso, presuntuoso, astuto ma in definitiva pasticcione che conosciamo nel romanzo ex parte Salvotti o il liberale moderno e concretamente riformista che esce, poniamo, dalle pagine di Franco Della Peruta? Forse tutti e due: ma ricavare dalle due letture una somma non è proponibile, se è vero che Garavini scrive un romanzo e Della Peruta un saggio storico.
Il problema che questo libro pone al lettore sta però nell’incertezza della demarcazione tra i due generi. La stessa autrice, nella nota finale che abbiamo già citato, rivendica uno spazio storiografico, sia pure nei limiti della forma narrativa scelta: "Alcuni passi di questo romanzo possono sorprendere, in quanto smitizzano certi aspetti del Risorgimento e correggono l’immagine negativa dell’amministrazione austriaca tramandata dai nostri manuali".
"Tutto poggia su un’accurata documentazione", ci dice, e non saremo noi a negarlo, ammirati come siamo dalla sua capacità di comporre il mosaico con tasselli spesso prelevati direttamente dalle carte d’archivio e ricondotti però con amore alla coerenza del disegno narrativo e dello stile. Quella documentazione che ben sorregge il romanziere non sarebbe però adeguata a supportare lo storico, perlomeno quando ci si allontana dalla biografia di Salvotti in senso stretto.
Facciamo un esempio non marginale. Parlando del libro di Pellico, "Le mie prigioni", si addolcisce decisamente l’immagine del carcere moravo dello Spielberg che tanto scosse la coscienza morale italiana ed europea. Nella tetra fortezza "le stanze non erano oscure segrete, ma ambienti sufficientemente spaziosi e rischiarati da finestre"; si sa che "il compagno di stanza non era imposto ma scelto dai carcerati medesimi", che "il vitto dei patrioti era migliore di quello riservato ai criminali comuni", che la lettura di libri fu almeno nel primo periodo consentita e che libera era la conversazione tra compagni di sventura. Per non dire della celebre amputazione di Maroncelli, il cui pessimo esito si dovrebbe non alla sprovvedutezza di un barbiere, ma alla professionalità di ben quattro medici. "Si sa": da quali fonti però, si chiede chi legge un libro di storia.
Chi legge un romanzo invece è portato a pensare che quel "si sa" rifletta l’immagine delle carceri austriache coltivata dal suo protagonista, il cui punto di vista, ancora una volta, orienta lo sguardo dell’autrice. La quale ha presente l’apologia dello Spielberg contenuta in un libro di Paride Zaiotti, magistrato di origine trentina anche lui, a sua volta intellettuale colto e buon letterato, quasi un alter ego di Salvotti. Il libro lo scrive su incarico del governo austriaco, perché lo difenda dalle accuse di un’opinione commossa e indignata. Perché dovremmo dar fede a una penna prezzolata, anziché alla testimonianza nobilissima de "Le mie prigioni"? Così risponde, in un pamphlet furibondo ("Paride Zaiotti inquisitore austriaco in Italia svergognato dal suo libro contro Enrico Misley", 1835), Pietro Giordani, l’amico-maestro di Leopardi: l’opuscolo è riprodotto per intero in google libri e la sua lettura consente di misurare l’estrema durezza della polemica contemporanea sul tema.
Tra i recensori di "In nome dell’imperatore" più d’uno si accontenta invece della pagina "alla Zaiotti" per una demitizzazione –o meglio, in questo caso, per una banalizzazione– a troppo buon mercato.