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Infanzia dannata

Foto-inchiesta su un carcere minorile americano. Da Narcomafie, mensile del Gruppo Abele di Torino.

S. Shelton, G. Neri

Si chiama Irwin Youth Development Campus. All’apparenza è un normale carcere minorile americano, con quei mattoni bianchi e l’aria tetramente industriale, ma l’immagine trascura i dettagli: i ragazzi mostrati in queste foto sono sì minorenni (da 11 a 17 anni), ma qui non entra chiunque, lo Stato della Georgia opera una rigorosa selezione all’ingresso: nessuno di loro aveva una foto segnaletica negli archivi dell’FBI, nessuno di loro è stato arrestato in diretta TV, nessuno di loro attende la sedia elettrica.

I ragazzi scontano pene non superiori a tre mesi, roba da poco: una firma falsificata a scuola, una copia di Playboy rubata, una vetrina rotta… bagatelle, insomma. Pensi al carcere per queste sciocchezze e ti viene da ridere. Ma a Ocilla, Georgia, si fa sul serio.

E c’è poco da ridere. La detenzione a Irwin ha un unico, preciso obiettivo: terrorizzare. I reclusi sono sottoposti ad un regime di incarcerazione shockante "per accelerare la comprensione del crimine" e per comunicare loro "nuove e giuste motivazioni". Per le autorità della Georgia, se il fatto commesso non è particolarmente grave, altrettanto non può dirsi di ciò di cui il reato è sintomo, un pericoloso fumus di attitudine alla criminalità, un embrionale stato di devianza; comportamenti, insomma, derivanti da una volontà viziata e bisognosi di salvifica e mortificante repressione.

Per la nostra cultura giuridica, per la nostra idea di giustizia minorile, certe immagini da campo d’addestramento dei marines appaiono di difficile comprensione, dolorosamente e inutilmente ridicole.

Ma lo scrupolo per la prevenzione del crimine non sembra essere l’unica ragione di questa monade di zero tolerance; i volti severi e improbabili di carcerieri che paiono sbucare da un fotogramma di Kubrick, gli occhi intrisi di timorosa ricettività di un ragazzino appena arrivato non comunicano esattamente un’idea di riabilitazione, ma suggeriscono, piuttosto, l’immagine di una partita a due tra carcerieri e detenuti, fra normali e devianti, fra belli e brutti.

Ecco, forse l’Irvine Campus mostra una faccia problematica delle mille e più della realtà Usa (ma non solo), quella che ordina l’affermazione dell’io ad ogni costo, anche su un bambino che rubacchia in un supermercato.

O forse quella stessa cultura giuridica che ci induce a deplorare una simile durezza è anche figlia di una realtà sociale meno complessa, o, addirittura, di ingenui idealismi.

Resta, al di là di tutto, l’impressione che qui il rimedio sia peggiore del male, che l’infanzia incerta che passa per un posto come questo sia destinata a diventare - come grida un tatuaggio sul petto di un detenuto, uno di quei tatuaggi che ci si infligge in carcere con qualche strumento di fortuna e stringendo i denti - una fucked up childhood: infanzia fottuta.

(s. c.)