Altri 4 anni di guerre e terrorismi?
Bush è stato rieletto: tentiamo un bilancio dei suoi primi quattro anni alla guida della superpotenza americana.
Il Comandante in capo rimane alla Casa Bianca e per altri 4 anni guiderà la più forte nazione della terra. In tanti, soprattutto fuori dagli Usa, speravano che ciò non avvenisse: secondo un’inchiesta della GlobeScan e dell’Università del Maryland, in un’ipotetica votazione in 35 paesi di tutti i continenti Bush avrebbe vinto solo in Polonia, Nigeria e Filippine. Risultati similari sono stati raggiunti dai sondaggi del Pew Research Centre e del quotidiano inglese The Guardian. E’comprensibile: i primi 4 anni della sua presidenza sono stati i più travagliati della storia recente. Qualcuno obietterà che Bush ha liberato due paesi dalla tirannide e difeso il mondo dal terrorismo. Proviamo a ragionare, mettendo in ordine i tasselli.
Il terrorismo. Il terrorismo ha ricevuto linfa vitale dalle scelte politiche del presidente statunitense. Sir Ivor Roberts, ambasciatore britannico in Italia, durante un convegno ha definito Bush "il più grande reclutatore per conto di al-Qaeda". E anche secondo l’International Institute for Strategic Studies di Londra, la guerra in Iraq ha reso al-Qaeda più forte.
Il diritto internazionale è stato fatto a pezzi, travolgendo le Nazioni Unite, istituzione con molti difetti ma l’unica che ricomprenda la totalità delle nazioni del mondo. Lo ha ripetuto davanti ai rappresentanti di 191 nazioni lo stesso Kofi Annan, di solito piuttosto timoroso: "Nessuno nel mondo deve essere al di sopra della legge… Ogni paese che proclama la legalità in patria deve rispettarla all’estero e ogni paese che insiste che sia rispettata all’estero deve rispettarla in patria… A volte perfino la lotta contro il terrorismo viene strumentalizzata per violare, senza che sia strettamente necessario, le libertà civili".
Meno diplomatico di Annan è stato il suo predecessore, l’egiziano Boutros-Ghali, che in un’intervista realizzata da Marc Innaro (Rai) il 3 ottobre diceva: "Anche a Baghdad gli americani si sono dimostrati dei perfetti incompetenti".
Nel corso dell’assise Onu, la guerra al terrorismo è stata letta anche in chiave diversa da quella dominante. Il presidente brasiliano Lula, ad esempio, ha dichiarato: "Se vogliamo eliminare la violenza, è necessario rimuovere le sue cause profonde con la stessa tenacia con cui affrontiamo gli agenti dell’odio. Dalla fame e dalla povertà non nascerà mai la pace". Il gruppo di lavoro Alleanza contro la fame, creato per sua iniziativa, ha proposto l’istituzione di alcune tasse internazionali (su vendita di armi, transazioni finanziarie, trasporti, profitti multinazionali) per finanziare lo sviluppo e ridurre la fame; ma l’idea ha subito trovato l’ostilità di alcuni paesi, tra cui i soliti Stati Uniti.
L’Iraq. Dell’Iraq ormai non si sa più che dire, se non che il paese è nella più totale anarchia, senza prospettive per una popolazione che, dopo aver contato forse 100.000 morti civili (vedi Una tragica contabilità), non sa più da che parte girarsi. Iyad Allawi, l’uomo che gli Usa hanno posto a capo del cosiddetto governo provvisorio, prepara le elezioni di gennaio 2005. Intanto Falluja, la città sunnita ribelle, è stata ripetutamente bombardata dalle forze statunitensi senza che il primo ministro iracheno spendesse una parola in favore della sua popolazione.
L’Afghanistan. La prima guerra preventiva di George W. Bush risale al 7 ottobre 2001. Dopo le emozioni, telegeniche quanto effimere, del burqa e degli aquiloni, dell’Afghanistan non si è più parlato fino alle elezioni del 9 ottobre, vinte senza fatica (e tra le contestazioni degli avversari) da Hamid Karzai, l’uomo degli Stati Uniti. Sarà presidente dell’Afghanistan o, come malignamente sostengono in molti, semplice sindaco della capitale Kabul? Che l’Afghanistan sia fuori controllo è testimoniato da due fatti. La produzione di oppio è tornata ai livelli ante-guerra: si parla di 3.600 tonnellate annue, in gran parte destinate al mercato europeo. Intanto l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere ha abbandonato il paese dopo l’uccisione di 5 suoi membri nel giugno 2004.
L’11 settembre. Ancora una volta qualcuno obietterà: "Voi dimenticate la tragedia dell’11 settembre!". Rispondiamo prendendo a prestito le parole di don Raffaele Garofalo su Adista del 18 settembre scorso: "Non si può pensare che, dopo l’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti si siano guadagnati, di fronte al mondo, l’aureola di paese vittima innocente. Come commuove la sorte atroce subita dalle vittime delle Torri gemelle (esse sì innocenti), ugualmente dobbiamo essere sensibili al ‘terrorismo di stato’, agli spregiudicati interventi nordamericani nella politica di altre nazioni in tutto il mondo".
Racconta Ettore Masina, scrittore cattolico: "Ci sono momenti in cui uno si odia per avere avuto ragione… Più di vent’anni fa scrissi che le guerre che i poveri avrebbero, prima o poi, cercato di combattere per uscire dalla loro oppressione, sarebbero state ‘naturalmente’ feroci. Non possedendo mass-media per illustrare le sofferenze del proprio popolo né trovando chi se ne faccia portavoce, la disperazione dei miseri non può che portarli a creare eventi tanto terribili da costringere giornali e televisioni a registrarli con clamore… Convinti, sino al suicidio, che per i loro figli i paesi dominanti non abbiano pietà, essi stessi non sentono pietà per gli innocenti travolti nelle loro imprese… La guerra dei poveri è disumana perché essi sono stati disumanizzati… Considero anch’io il terrorismo una spaventosa minaccia…, ma so che accanto a me, dalla mia parte (che io lo voglia o no, e quindi con mia inevitabile complicità), c’è chi, da posizioni dominanti… provoca, alimenta e spesso sfrutta la collera dei poveri: quella collera che quasi cinquant’anni fa già il grande papa Paolo VI sentiva crescere nelle viscere della storia e inutilmente ci additava nella sua enciclica Populorum progressio".
Sulla stessa linea interpretativa un altro prete, don Gianfranco Formenton: "Non c’è nessuna differenza, se non nelle parole e nelle proporzioni, tra un terrorismo degli eserciti regolari e un terrorismo fatto di bande armate al servizio di qualche mente malata. Uccidono, inesorabilmente, implacabilmente, gli uni e gli altri… I criminali-terroristi sono tra le grotte delle montagne dell’Afghanistan e tra i palazzi del potere occidentale. Gli uni e gli altri si alimentano a vicenda".
L ’anti-americanismo. Qualcuno obietterà: "Criticare la politica di Bush è anti-americanismo ed essere anti-americani significa schierarsi con i nemici dell’Occidente".
"No - ha detto Boutros-Ghali -, non esiste alcuno scontro di civiltà. Ci sono, piuttosto, conflitti tra ricchi e poveri, tra stati sempre più ricchi e continenti sempre più drammaticamente poveri".
Dopo l’11 settembre, Bush ha potuto introdurre norme che riducono drasticamente le libertà civili dei suoi connazionali, dichiarare guerra all’Afghanistan, rinchiudere i prigionieri nella grande Bastiglia di Guantanamo, voltare le spalle all’Onu ed invadere l’Iraq, concedere commesse alle industrie di famiglia della sua amministrazione, dissipare l’attivo del bilancio e accumulare un considerevole passivo, predicare la democrazia in una parte del mondo e sostenere i regimi repressivi dei paesi di cui ha bisogno. Affermazioni, tutte queste, non di un presunto anti-americano, ma di un illustre estimatore degli Stati Uniti: l’ex ambasciatore Sergio Romano, sul Corriere del 3 novembre 2004.
Moises Naim, direttore dello statunitense Foreign Policy, ha scritto: "Come dimostrano i sondaggi, l’anti-americanismo è il più diffuso dei sentimenti condivisi dalle opinioni pubbliche. Perciò all’estero è sempre più difficile per i politici difendere la causa degli Stati Uniti o collaborare con Washington".
Dopo la rielezione di Bush, le reazioni delle cancellerie mondiali sono state caratterizzate da un freddo linguaggio di circostanza; solo pochi paesi - tra cui la Russia di Putin e l’Italia di Berlusconi - hanno pubblicamente gioito.
L ’informazione. Sono in molti a criticare le due televisioni satellitari arabe: al-Jazeera (Qatar) e al-Arabya (Dubai). Le si accusa di propagandare l’odio e lo scontro di civiltà e di essere contigue ai terroristi. Sicuramente sono vicine al mondo arabo ed islamico di cui sono emanazione, ma i media occidentali sono super partes?
Troppo spesso chi non è d’accordo con l’interpretazione dei media dominanti o è un incapace o, peggio, un connivente con il terrorismo. Negli Stati Uniti, le televisioni come Fox News (appartenente a Rupert Mardoch, il magnate dei media mondiali) non sono certo un esempio di correttezza. D’altra parte, la stragrande maggioranza degli statunitensi vede la tv e non legge il New York Times, il quotidiano che la scorsa estate fece una severa autocritica per non aver indagato sulle informazioni (poi rivelatisi false) fornite dalla Casa Bianca rispetto all’Iraq e alle armi di distruzione di massa.
In Italia, la situazione dell’informazione è addirittura peggiore, perché, invece di spiegare ed aiutare a capire, sobilla, esagera, incita allo scontro. A settembre, Panorama titolava in copertina: "Guerra all’Occidente" e il direttore Carlo Rossella scriveva: "La guerra contro l’Occidente, contro di noi, è stata dichiarata. I terroristi la combattono senza porre limiti alla barbarie. Meritano una risposta dura, spietata, unanime. Così li sconfiggeremo".
In questo quadro, va inserito il linciaggio mediatico a cui sono state sottoposte le "due Simone" (vedi Le due Simone, il terrore e l'Italia incattivita): Il Giornale, Libero, Il Foglio, La Padania si sono distinti in questo gioco al massacro. Pierluigi Battista, su La Stampa del 12 ottobre. ha addirittura utilizzato la morte di Jessica e Sabrina nell’attentato di Taba per coniare il termine di "anti-Simone" Altra stranezza: il Corriere del 22 ottobre si è scandalizzato - con un corsivo in prima pagina - del linguaggio utilizzato da un magistrato di Bari, che ha definito gli ex ostaggi Cupertino, Stefio, Agliana e Quattrocchi dei "mercenari", ma non ha usato parole altrettanto severe per chi ha insultato le 2 Simone. Quelle Simone che si sono guadagnate la copertina di Time.
Ambiente ed economia. Bush considera l’ambiente una merce qualsiasi, con il risultato di aver contribuito a stravolgere gli ecosistemi mondiali. L’affossamento del Protocollo di Kyoto (a novembre firmato anche dalla Russia), già di per sé insufficiente come strumento di preservazione ambientale, si accompagna al fatto che gli Stati Uniti sono, di gran lunga, il paese più inquinante del mondo. La mercificazione dell’ambiente rientra nell’ideologia neoliberista, che considera il libero mercato alla stregua di un dogma.
Con sempre meno risorse e meno potere, gli stati sono schiacciati dalle politiche economiche neoliberiste, che privilegiano l’individuo e l’iniziativa privata rispetto alla collettività e al bene pubblico.
"La sfera pubblica - scrive Joel Bakan, docente di diritto costituzionale all’Università British Columbia di Vancouver - è oggi sotto attacco… Negli ultimi due decenni, le corporation hanno sferrato un’offensiva energica per far arretrare i suoi confini. Con le privatizzazioni, gli stati hanno ceduto alle corporation il controllo di istituzioni un tempo considerate pubbliche per natura. Nessun ambito è rimasto immune dall’infiltrazione. Le società di distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica, la polizia, i servizi di emergenza e i vigili del fuoco, gli asili nido, l’assistenza e la previdenza sociale, le scuole e le università, la ricerca scientifica, le prigioni, gli aeroporti, il sistema sanitario, il genoma umano, i mezzi di comunicazione, lo spettro elettromagnetico, i parchi pubblici e le strade sono stati tutti sottoposti, o stanno per esserlo, a una privatizzazione totale o parziale… Basare un sistema sociale ed economico su queste caratteristiche è un approccio pericolosamente fondamentalista".
Gli stessi statunitensi hanno visto allargarsi, nel 2003, la forbice sociale. Secondo i dati del Census Bureau, l’Istat statunitense, 35,9 milioni di americani vivono sotto la soglia di povertà: 1,3 milioni in più rispetto al 2002. Ciò significa che 1 cittadino su 8 della nazione più ricca del mondo è povero. Sempre nel 2003, il numero delle persone senza copertura sanitaria è salito a 45 milioni, 1,4 in più rispetto al 2002: il 15,6% della popolazione.
Secondo don Paolo Farinella, "l’America chiede una cosa sola: non cambiare un tenore di vita che genera livelli di spreco strepitosi. Tutto il resto (il mondo, l’Iraq, ma anche Bush o Kerry) poco importa. Ciò che conta è il loro supposto benessere che, sebbene malato, deve essere mantenuto a spese del mondo (vedi protocollo di Kyoto, che anche Kerry si era impegnato a non firmare). Il welfare in America non c’è e non ci sarà, perché la società ha un fondamento religioso d’interpretazione, basato sul principio teologico vetero-protestante: la ricchezza è segno della benedizione di Dio, la povertà segno dell’abbandono: il ricco può essere compassionevole e fare l’elemosina, ma tu, mondo, grida sottovoce e non pretendere troppo".
La Chiesa. Si chiamano Jackie Hudson, Carol Gilbert e Ardeth Platte e sono suore domenicane che stanno vivendo una condizione particolare. Sì, perché le tre religiose sono detenute in 3 carceri statunitensi: Jackie ad Adelanto (per 30 mesi), Carol ad Alderson (per 33 mesi), Ardeth a Danbury (per 41 mesi). Sarebbe bello sapere quanti sentito parlare di queste tre donne. Pochi, crediamo. Ma non per colpa loro: è difficile che trasmissioni come Porta a porta, settimanali come Panorama o quotidiani come Il Giornale ne parlino. La vicenda è troppo dirompente e soprattutto foriera di messaggi inadeguati in tempi di guerra permanente. Suor Jackie (69 anni), suor Carol (56) e suor Ardeth (67) sono in carcere perché il 6 ottobre 2002 sono entrate nella base missilistica di Greeley (vicino a Denver, nel Colorado) per protestare contro i missili a testata nucleare lì custoditi (per informazioni, vedi www.domlife. org - il sito delle suore domenicane degli Usa - e www.jonahhouse. org - sito Usa di solidarietà).
Il futuro. In questo quadro, cosa ci riserveranno i prossimi anni? Se Bush proseguirà sulla strada intrapresa durante il suo primo mandato, probabilmente ci saranno altre guerre preventive (Iran?, Siria?, Sudan?, Corea del Nord?, ma rischiano pesanti interferenze anche Cuba e Venezuela) e una recrudescenza del terrorismo su scala mondiale. Verranno sprecate risorse immense per la corsa ad armamenti sempre più sofisticati, sottraendole ad impieghi utili a rendere il mondo un luogo più vivibile: per ridurre le diseguaglianze, per preservare un ambiente sempre più disastrato.
Insomma, con Bush ancora alla Casa Bianca, è difficile intravvedere un futuro tranquillo, a meno che sul palcoscenico non si affaccino nuovi attori-protagonisti (l’Europa, purché non divisa, per esempio) in grado di contrastare il monologo statunitense.
Nella speranza di essere smentiti dai fatti, al momento abbiamo una sola certezza confortante: passati i prossimi 4 anni, Bush non potrà più essere rieletto.