“La cultura degli italiani”
Tullio De Mauro, La cultura degli italiani. A cura di Francesco Erbani. Bari, Laterza, pp.243, 10
Il deficit spaventoso è questo. In Italia solo il 42 per cento del la popolazione adulta, compresa fra i 25 e i 64 anni, ha un diploma di scuola superiore, solo il 9 ha una laurea. Il 25 per cento delle ragazze e dei ragazzi non prendono ancora oggi il diploma, e del restante 75, i bravi, una buona metà non sa qual è la percentuale di 3 su 25, né sa indicare chi è Garibaldi.
Gli analfabeti completi sono 2 milioni, il 5 per cento della popolazione adulta. Il 66 per cento non è nella condizione di leggere il Corriere o la Repubblica, e il 38 per cento non sa leggere nemmeno un giornalino per ragazzi. Infatti, ogni mille abitanti si vendono appena 102 copie di quotidiani, e i due terzi della popolazione non leggono mai né un giornale né un libro.
In Europa, invece, i diplomati sono in media il 59 per cento, in Germania l’81. I laureati in Europa sono il 21 per cento, in Germania il 23. L’analfabetismo funzionale, del 66 per cento in Italia, è del 50 in Europa, del 30 in Svezia.
Dati "sconvolgenti", commenta Francesco Erbani, della redazione culturale di Repubblica, al sentirseli dire, così in sincronia, da Tullio De Mauro, linguista, pedagogista, già ministro della Pubblica Istruzione.
All’origine dell’arretratezza c’è una lunga, storica, indifferenza delle classi dirigenti italiane, prima e dopo l’unità. Nell’Europa del nord, l’apprendimento della lettura e della scrittura fu un impegno fin dai tempi della Riforma: ne andava della conoscenza della Bibbia. In Italia, nel 1868, in risposta ad Alessandro Manzoni che chiedeva l’insegnamento della lingua italiana, la Civiltà cattolica scriveva che "far apprendere quell’idioma alle classi infime del popolo sarebbe per la massima parte e quasi totalità un lavar la testa all’asino". E Sidney Sonnino, da parte laica, sosteneva nel 1876 che con l’istruzione generalizzata "noi avremo seminato vento per raccogliere tempesta". Per questo il tasso di analfabetismo diminuì lentamente: era del 75 per cento nel 1861, del 40 nel 1911, del 14 nel 1951. I maestri erano considerati "sovversivi", le maestre "puttane".
Ci furono anche sussulti positivi, come l’istituzione della scuola pubblica dell’infanzia e la riforma della scuola media: oggi il 90 per cento dei bambini e delle bambine in età prescolare hanno la loro istruzione, e l’obbligo scolastico fu innalzato nel 1962 a quattordici anni. Ma si dovette aspettare il governo dell’Ulivo, negli anni novanta, per avere un altro sussulto.
Alla cultura "di base" degli italiani la classe politica fu, e rimane, indifferente, non solo nella parte conservatrice. Nel Pci un leader come Giorgio Amendola temeva che se i figli degli operai avessero preso tutti il diploma nessuno poi avrebbe fatto l’operaio, e un intellettuale come Concetto Marchesi era convinto che l’obbligo scolastico andasse limitato alla licenza elementare.
Luigi Berlinguer, nell’impostare il recupero, le riforme necessarie e tardive (siamo nel 1996), si trovò ad agire da solo. Elevare l’obbligo scolastico, generalizzare la scuola dell’infanzia, unificare l’elementare e la media, dare alle scuole autonomia, definire i criteri di parità per le scuole private, riformare l’esame di maturità, insegnare il Novecento, istituire i corsi di formazione per gli insegnanti, sperimentare i corsi per gli adulti, riformare l’università per accrescere il numero dei laureati, non parvero obiettivi qualificanti, su cui impegnare con convinzione l’intera coalizione di centro-sinistra.
Tullio De Mauro, nelle pagine più coinvolgenti del libro, racconta come si trovò ad ereditare, nell’isolamento, l’impresa, fino alla venuta di Silvio Berlusconi. E fino al tentativo di Letizia Moratti di sostituire all’apparato pubblico l’istruzione come fatto privato, affidato alle scelte delle famiglie. Che è la rinuncia al valore dell’eguaglianza, che ci eravamo impegnati a perseguire con il progetto, e il patto, scritto nella Costituzione all’articolo 3: "E’ compito della Repubblica…".
E non è solo insensibilità della classe politica. Con coraggio, facendo nomi e cognomi, De Mauro chiama a rapporto gli intellettuali. Lorenzo Milani, Guido Calogero, Pier Paolo Pasolini, Lucio Lombardo Radice, considerarono tema centrale la cultura di base dei cittadini italiani.. E con loro Bruno Ciari e Mario Lodi, le organizzazioni degli insegnanti, il Mce, il Cidi, l’Uciim, l’Aimc. I maestri di strada, i salesiani dei quartieri spagnoli di Napoli.
Ma da dove è venuta, allora, l’ostilità alla riforma da parte di tanti intellettuali di sinistra, come gli storici Luciano Canfora e Chiara Frugoni, il filologo Cesare Segre, il matematico Lucio Russo, lo storico dell’arte Cesare De Seta? E poi, fra gli opinionisti, non solo Angelo Panebianco, ma anche Mario Pirani. Non solo il Giornale, ma anche l’Espresso.
La risposta di De Mauro è esplicita: a causare le resistenze sono state la disinformazione, la svalutazione degli aspetti tecnici della didattica, l’attenzione esclusiva alla "cultura" che ha nome liceo, quello classico innanzi tutto. Non sanno, gli intellettuali che fanno opinione, che il liceo classico è frequentato dal 9 per cento degli studenti, lo scientifico dal 19, mentre il 70 per cento, l’ossatura della società italiana, il futuro della sua democrazia, si trova negli istituti tecnici e professionali.
Riformare la scuola, curare l’arretratezza culturale degli italiani, farne dei cittadini, richiede risorse, immense, da spostare da altri settori. "Ma che cosa costa un delinquente in più?", domanda Tullio De Mauro al ministro di turno dell’economia. Io ricordo le parole del magistrato Antonino Caponnetto, che tanto impressionarono i miei studenti di Trento riuniti in assemblea: "I giovani che a Palermo sappiamo trattenere a scuola, e poi approdano al liceo, o all’istituto professionale, sanno resistere meglio alle sirene della mafia, al rischio di morire e di uccidere".
De Mauro non sfugge ai problemi. I giornali sono fatti male? Ma la bassa quantità di persone che li sanno leggere rimane l’indice più preoccupante del nostro "deficit democratico". Sono una delusione i politici, tutti, anche a sinistra? De Mauro non usa la parola disastro. Conosce la politica dall’interno, le sue difficoltà: "Io non credo abbiano sufficientemente chiaro…". L’approccio articolato, complesso, fondato sui dati, gli viene dall’essere innanzi tutto uno scienziato, della lingua. In un’Italia abituata ad un rapporto prevalentemente retorico con la parola, ha fatto conoscere Ferdinand de Saussure: la lingua è significante e significato, sincronia e diacronia, langue e parole,.
Ancora. Il dibattito coinvolge tre amici, a sinistra, che sanno bene quanto sia importante riformare la scuola. Quando Alberto Asor Rosa scrive il volume La Cultura, per la Storia d’Italia Einaudi, pensa a poeti, romanzieri, saggisti di varia umanità. Carlo Bernardini, fisico, sostiene solo le virtù della cultura scientifica nelle forme più astratte. Tullio De Mauro riconosce cultura anche nelle operazioni tecniche, meccaniche, artigianali. Sono nodi che non si sciolgono una volta per tutte, con un taglio di legge.
Io penso che questo dibattere, e dissentire, sulla "cultura", provi la necessità, e la difficoltà, del riformare la scuola, che, in profondità, è congiungere la mente e la mano. Io, liceo classico in gioventù, laureato nella facoltà di lettere e filosofia, ho insegnato per una vita la letteratura e la storia ai ragazzi di un istituto tecnico industriale. E’ stata un’esperienza in cui molto ho dimenticato (Erodoto, Orazio…), e qualcosa ho imparato, sbirciando nei laboratori e nelle officine. Lì ho capito che hanno bisogno di "riforma"sia i licei che gli istituti tecnici. E che la formazione professionale è problema centrale.
In questo libro Tullio De Mauro critica partiti, sindacati, intellettuali, giornali. Accarezza invece gli insegnanti. A me pare che anche gli insegnanti, come Bernardini, Asor Rosa, De Mauro, sono molto diversi fra loro. C’è, poi, anche chi inneggia a Mario Pirani e a Angelo Panebianco.
Ogni settimana, su l’Adige, "Ezechiele" rimpiange il passato, l’età dell’oro. In un’occasione si è messo persino a imprecare contro le scuole di oggi che, nello sforzo di motivare i loro studenti, organizzano all’inizio dell’anno le attività di "accoglienza". Non è che in questo modo roviniamo i ragazzi? - si è domandato pensoso. Secondo Tullio De Mauro l’età d’oro della scuola non sta nel passato, ma nel futuro. Da costruire.