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La terza fase

Raffaele Simone, La terza fase. Laterza, Bari, 2000, pp.152 , £.22.000.

La lettura di libri e giornali è in calo, nel mondo, da almeno vent’anni. E gli analfabeti, addirittura, sono inchiodati, da un pezzo, attorno al 47%. Sono dati che rivelano la fatica crescente del leggere e scrivere. Della quale Raffaele Simone intende dare una spiegazione, da linguista, la più razionale possibile, senza scadere in anatemi, intrisa anzi di "forse".

La crisi preoccupa perché colpisce le due grandi invenzioni con cui la specie umana, nelle prime due fasi della storia, ha formato e distribuito le conoscenze: la scrittura e la stampa.

Secondo il modello proposizionale del linguaggio, l’esperienza viene comunicata attraverso parole articolate, che analizzano, strutturano, gerarchizzano i pensieri, in modo che formino testi. I testi, "entità di elementi disposti in linea", scritti e stampati, favoriscono l’intelligenza sequenziale: essa procede linearmente, un passo per volta, ordina i pensieri in modo da renderli successivi.

L’altra forma di intelligenza, la simultanea, attiva invece l’ascolto e la visione non alfabetica, è caratterizzata dalla capacità di cogliere una varietà di eventi nello stesso tempo, senza però attribuire alle informazioni un ordine, una successione, una gerarchia. E’ favorita dall’attività di guardare le immagini e di ascoltare la musica.

Il libro è la base tecnica in cui tradizionalmente si è depositata la cultura - quella occidentale, razionalistica e scientifica, innanzitutto- mentre oggi, nella terza fase, sono i media informatici e telematici (la televisione, il telefono cellulare, il calcolatore) gli emblemi della conoscenza. Essi sono portatori di un sapere disarticolato, che rifiuta analisi e gerarchie logiche. Sapere generico e vago, accenna e allude, piuttosto che ordinare e strutturare.

I giovani, fatalmente, sono attratti dal modello non-proposizionale della "Fusione", mentre la scuola, sia sul piano cognitivo che su quello metodologico, resiste, almeno idealmente, sulla trincea della "Lucidità". La cultura dei giovani e la cultura della scuola vivono così un conflitto profondo, la loro reciproca estraneità viene dall’"incredibile canyon" che l’innovazione tecnica ha scavato fra loro: "La pratica scolastica è spesso per i giovani una sorta di finzione, di penitenza più o meno protratta, finita la quale finalmente si può tornare alla realtà vera e autentica, che è quella del non-proposizionale".

Che fare? Dall’analisi pessimistica che Raffaele Simone conduce del cambiamento in cui siamo coinvolti, ci si aspetterebbe una richiesta alla scuola a resistere, a riorganizzarsi, perché l’intelligenza sequenziale, più ricca, più fine, non ceda a quella simultanea, più elementare e primitiva. Invece, con uno scarto inatteso, più da pedagogista che da linguista, l’invito è a riflettere sul nuovo standard giovanile, una cultura globale ormai, e a incorporarlo nell’istituzione scolastica.

Non qui, ma altrove (Iter, n.5-1999) Simone propone una svolta radicale nell’educazione linguistica. Se finora è prevalso un modello di competenza "massimalista", ricco di dimensioni e articolazioni (governare un’ampia varietà di testi, cogliere differenze semantiche, parlare, ascoltare…), oggi, proprio per quel che è accaduto nel mondo esterno e nella cultura dei giovani, è opportuno modificare il modello "in diminuzione". Per collegare il linguaggio che i giovani usano fuori con quello in cui s’imbattono a scuola, la proposta è di abbassare il livello delle prestazioni linguistiche da richiedere a loro.

Temo di non essere d’accordo. Lo scrivo con pudore: da Simone gli insegnanti hanno imparato molto, e molto ancora impareranno.

Del mutamento culturale profondo, nel rapporto fra lingua e immagine, fra lettura e visione, è sintomo la frase seguente: "Non ho letto il libro, ma ho visto il film". L’autore, preoccupato, spiega che "guardare è più facile che leggere": la visione è infatti un canale più amichevole perché è dotato di un ritmo veloce e trainato dall’emittente, è multisensoriale, conviviale, povero di implicazioni enciclopediche, munito di un alto livello di iconicità. L’homo videns guarda addirittura con sufficienza l’homo legens: egli è convinto di acquisire informazioni senza fare la fatica del lettore, che anzi a lui appare lento, solitario, musone.

Ma le cose non stanno così, non possono stare così, è l’obiezione di Raffaele Simone, che ha attinto dal libro la maggior parte delle sue conoscenze. Ma è fondata un’obiezione tratta dalla nostra storia di lettori, che hanno sperimentato, da sempre, la fatica e la gioia della lettura?

Io penso che l’immagine e la globalità multimediale sono divenute ormai, in certi ambiti, più potenti della lingua articolata. Non è solo l’emozione che ci viene da un tramonto romantico dipinto su tela. Penso proprio, ad esempio, ad una scienza come la storia. I film "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick, "La grande guerra" di Mario Monicelli, "La grande illusione" di Jean Renoir, rappresentano meglio, a mio parere, la complessità della prima guerra mondiale, di qualunque testo storiografico scritto.

C’è di più. La familiarità con la visione, fin da bambini, fornisce competenze che chi si è formato sul libro fatica in seguito ad acquisire. I miei studenti sanno interpretare benissimo, in "Tempi moderni" di Charlie Chaplin, il significato metaforico dell’immagine d’apertura dell’orologio, quello analogico del gregge di pecore accostato agli operai che entrano in fabbrica, e anche la sequenza di Charlot che raccoglie la bandiera rossa caduta dal camion e finisce, a propria insaputa, alla testa di una manifestazione operaia. Io, alla loro età, esperto di libri, ma quasi digiuno di film, non sapevo fare altrettanto.

Rudolph Arnheim scrive che "dove basta il dito per indicare, la mano che scrive si ferma, le facoltà mentali si degradano". La tesi che il prevalere dell’immagine sul linguaggio atrofizza il pensiero non trova però conferma nella mia esperienza di insegnante. Anzi, dopo il film, in aula, pensano e parlano anche ragazzi che di solito si distraggono e tacciono: l’immagine filmica spinge a ragionare, dialogando, più del testo scritto della letteratura. E’ vero però che il cineforum, nella società, si è andato in questi anni esaurendo: quasi più nessuno sente il desiderio di fermarsi a discutere del film visto in sala. Ma responsabile non è, probabilmente, il medium simultaneo e coinvolgente.

Raffaele Simone sa bene che ogni svolta culturale comporta un guadagno e una perdita, e indica con citazioni accurate quelli inerenti la scrittura e la stampa e, prima ancora, il passaggio dalla comunicazione gestuale a quella vocale. Il progresso culturale è avvenuto, nelle prime fasi, attraverso un’accumulazione di analisi, di intelligenza sequenziale, di linguaggio proposizionale. L’autore si domanda però, in conclusione, se nella modernità lo spirito analitico non ha passato il limite, e cita Leopardi, secondo il quale l’analisi è nemica delle emozioni. E’ perciò toccato alla metafora, alla sinestesia, all’enjambement, tenere viva, nella poesia, un’esigenza alternativa insopprimibile.

Una riserva, ristretta, di olismo, di approccio globale ai problemi, la specie umana l’ha sempre conservata nella sua lunga storia: l’arte ha interrogato la scienza con continuità, e senza sensi di inferiorità. Poco ascoltata probabilmente, ma non reticente. Il pensiero umano sa separare ciò che sembra una massa indistinta, ma sa anche connettere ciò che sembra smembrato. Fra i banchi abbiamo sempre avuto qualche ragazzo dotato di uno stile cognitivo globale piuttosto che analitico, pronto a vedere la foresta dove i compagni vedevano alberi.

A Noam Chomsky, scienziato della lingua, impegnato a dimostrare la "crescita del linguaggio", Gregory Bateson domandava: "Lei ritiene che il linguaggio sia un organo?" Ma Bateson è stato antropologo, psichiatra, biologo, cibernetico. Un "guru", la cui specialità è "accennare senza dire", accusava, dieci anni fa, Carlo Bernardini, in nome della scienza meccanicistica.

Non è solo la tradizione gnostica, e quella orientale, a vedere nel linguaggio un "tradimento" dell’esperienza umana, densa, immediata, ineffabile. Anche Italo Svevo ammette che nel suo romanzo, un testo scritto in sequenza, sono accumulate "tante verità e tante bugie".

Ciò che sorprende, oggi, a fine millennio, è forse il fatto che la nostalgia del "simultaneo", del sapere olistico e aurorale dell’inizio, faccia capolino non solo nella cultura giovanile, ma assuma le forme tecnologiche della terza rivoluzione industriale, dei suoi "ordigni" elettronici, informatici, telematici.

Il testo scritto al calcolatore, nota Raffaele Simone, cessa però di essere il "testo chiuso d’autore", che analizza l’esperienza in modo saldo e definito. E’ invece un testo "indefinitamente aperto", per quella possibilità di "tagliare" e "incollare", irta di pericoli, che Platone notava criticamente già nell’invenzione della scrittura. Simone, oggi, nell’informatica intravede i bagliori di un nuovo irrazionalismo. Ma forse è solo una nuova ragione a farsi strada, che ci preoccupa perché diversa da quella della tradizione in cui siamo cresciuti.

Anch’io, ovviamente, mi sono formato sui libri, leggendo tante parole in sequenza. Le macchine multimediali mi mettono in ansia: quando si inceppano, per riavviarle, ho bisogno di un figlio o di uno studente. Ciò che potrò insegnare ai ragazzi, nei pochi giorni che ancora mi restano, lo estrarrò innanzitutto, ancora, dai testi scritti. E insisterò, come sono capace, senza cedere a "minimalismi linguistici", perché imparino ad ascoltare, parlare, leggere, scrivere, nella varietà di stili e registri che la storia della cultura ci ha consegnato. Convinto, fra l’altro, che è chi legge buoni libri e giornali che sa premere i pulsanti giusti della televisione e di Internet.

Gli insuccessi li metto nel conto. Non li so prevedere né programmare però, come vorrebbe un modello linguistico "in diminuzione". La questione della lingua è la spia di sommovimenti culturali profondi: è difficile distinguere fra il fallimento di chi è chiamato ad insegnare a tutti (le regole, consolidate, del testo argomentativo!) e le trasformazioni linguistiche, ineluttabili, indotte dal cambiamento. Sarà la storia a decidere i guadagni e le perdite nella terza fase appena iniziata.

Nemmeno la voce riuscì, nella notte dei tempi, a mandare in soffitta i gesti del corpo: ancora oggi, quando parliamo, accompagniamo la parola con gli occhi, la bocca, la fronte. E se chiedo a un ragazzo di descrivere una scala a chiocciola, lui incomincia a muovere le mani e le braccia.

Così non riesco a pensare, finché qualcuno sentirà il bisogno di arginare i mali che la Natura ci infligge, che possa apparire inutile la lettura, parola dopo parola, de "La ginestra" di Giacomo Leopardi. Supportata, magari, dal faccione e dal vocione di Carmelo Bene, registrato dalla Rai all’una di notte.