Aldino che vieni, Aldino che vai…
Da Aldo Palazzeschi, un lavoro dissacrante del mattatore Paolo Poli sulle debolezze dell'Italia degli anni venti.
L’Italia è un Paese alquanto strano: terra di santi, di poeti, di navigatori, riunisce in sé contraddizioni secolari o addirittura millenarie. Incline alla retorica e al sentimentalismo, ma capace all’occorrenza di infliggersi, se ci è concesso dirlo, una sonora presa per il culo. È questo il caso di Aldo Palazzeschi e del suo interprete di oggi, Paolo Poli. In due ore di spettacolo, l’attore fiorentino ha messo in scena il meglio e il peggio di ciò che siamo stati e siamo ancora noi italiani. Ci ha rapiti come solo un mattatore riesce a fare. Un cast di soli uomini, abiti sgargianti proiettati sulle scene immaginifiche e naïf di Luzzati, e niente trama; la voce è il filo conduttore, coi suoi timbri mai uguali.
"Aldino, mi cali un filino?" lo diceva la sora Sofia nel "Piacere della memoria". Quanti ricordi, infatti… "Il pinguino innamorato", "Fiorin fiorello" e qualche brano ignoto per chi è nato tardi, arrangiati con maestria da Jacqueline Perrotin. Vien voglia di intonarle per strada quelle canzonacce, per non dimenticare!
Ce n’erano di giovani a vedere ed applaudire Paolo Poli, e questo nonostante gli anni Venti siano sempre più sepolti nella polvere dei libri. La storia la si studia, non si vive; ma lì, nel mondo in miniatura del teatro, era tutta un’altra cosa. Chi di noi non si è rivisto in quei balletti, nei testi ironici, graffianti, ingenui, tragicomici d’un tempo ch’era solo l’altro ieri? Senza i Paolo Poli, che ne sarebbe della storia fatta nelle piazze invece che in TV? Dei sogni della gente, dei desideri bassi e passeggeri grazie ai quali andiamo avanti? L’Italia "bene" scorda in fretta ciò che non conviene, censura il pecoreccio, erige monumenti a tutto il resto.
Ma al teatro non si sfugge e la satira colpisce chi le pare. Poli è prete, colonnello, l’Italia, un’africana, nessuno e tutti noi; è l’antidoto a ciò che ci hanno detto, che ci hanno fatto credere sul nostro Belpaese, un affondo alla grandeur nostrana.
Abbiamo riso sulle imprese in Corno d’Africa, gli eroi un po’ troppo esotici e esaltati del Ventennio, quasi il mondo dovesse salutare in Roma la patrona del vivere civile, e ringraziarla anche!
Chissà se rideremo fra altri cinquant’anni, pensando a ciò che oggi ci unisce e soprattutto ci divide sotto una bandiera. Se sapremo farlo, avremo forse superato questo tempo con le sue contraddizioni, magari grazie a un nuovo Palazzeschi e a nuove irriverenze. Perché in fondo non è vero che "gli uomini non domandano più nulla dai poeti". Li acclamano in teatro, non li leggono, magari non li ascoltano abbastanza…