L’ONU in Palestina?
La soluzione del dramma mediorientale è nelle risoluzioni dell’ONU. E spetta all’ONU farle applicare.
Quanto accade in Palestina dimostra ancora una volta che per fare la pace, e poi per mantenerla bisogna essere in due. Ciò vale per l’intero arco di tempo dalla nascita dello Stato di Israele (quasi mezzo secolo), ma anche per il tempo più breve dagli accordi di Oslo (7 anni), e per gli avvenimenti di questi ultimi mesi. Particolarmente drammatici questi, perché la pace sembrava a portata di mano, mancavano pochi dettagli (almeno così pareva), e invece si è all’improvviso precipitati in una spirale di violenza e di terrorismo che può sfociare in una guerra generalizzata. La domanda "di chi è la responsabilità?" si rivela abbastanza sterile se limitata ai due contendenti: Israele e Autorità Nazionale Palestinese (ANP). E’ chiaro, almeno per me, che i torti come le ragioni non stanno da una parte sola, e che la violenza armata va condannata con eguale fermezza sia che abbia il simbolo della stella di Davide, sia che porti i colori di Hamas o di Al Fatah.
La rnorte del bambino palestinese, invano protetto dalle braccia del padre, ucciso dai fucili israeliani (la sua immagine ha fatto il giro del mondo) equivale a quella dei tre soldati israeliani linciati da una folla palestinese inferocita. E’ appunto questa violenza che bisogna fermare, come primo passo verso una soluzione pacifica e durevole. La condanna senza appello della violenza non deve però nascondere il fatto incontestabile che in Palestina c’è una vittima e c’è un oppressore: i Palestinesi aspettano da quasi 50 anni il riconoscimento dei propri diritti, e lo Stato di Israele glieli nega.
Questa affermazione non vuol concedere nulla alla propaganda, che è sempre odiosa quando c’è gente che muore, ma è necessario sapere dove sono il torto e la ragione per capire se c’è una via di uscita. Io credo che una soluzione esista, e che sia contenuta nei documenti di diritto internazionale che si sono susseguiti dal 1947 ad oggi, e che l’attenzione dell’opinione pubblica, e perfino degli esperti, tende a dimenticare.
La risoluzione nº 181 dell’ONU in data 29 novembre 1947 prevede per la Palestina (Plan of Partition) la costituzione di due Stati (Arab and Jewish) e uno speciale regime internazionale per la città di Gerusalemme.
Dello Stato arabo palestinese e di quello israeliano la risoluzione delinea i confini con grande accuratezza, e stabilisce che la città di Gerusalemme sia amministrata dalle Nazioni Unite.
Tale risoluzione, approvata all’unanimità, corredata da carte geografiche, è sempre stata contrastata da lsraele, mentre coincide con il progetto politico dell’OLP e di Al Fatah almeno da trent’anni: Arafat non chiede nulla di più e nulla di meno di quanto stahilito dall’ONU (compresi gli Stati Uniti).
Con la risoluzione nº 242 del 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza ha deciso all’unanimità (compreso quindi il voto degli USA):
1. il ritiro immediato delle forze armate israeliane dai territori occuputi;
2. il riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ciascuno Stato della regione mediorientale.
Sono passati 33 anni e Israele deve ancora completare il ritiro del suo esercito (che doveva essere immediato) dai territori palestinesi occupati. Dei due Stati, quello palestinese non esiste.
Con la risoluzione n. 338 del 22 ottobre 1973 il Consiglio di Sicurezza ha chiesto alle parti in causa di cessare immediatamente il fuoco e di dare pronta applicazione alla precedente risoluzione n. 242.
A sua volta l’Assemblea generale dell’ONU con risoluzione 3236 del 22 novembre 1974 ha riconosciuto l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese, e ha solennemente affermato che:
1. al popolo palestinese spetta il diritto all’autodeterminazione senza interferenze esterne;
2. al medesimo popolo spetta l’indipendenza nazionale e la sovranità.
Si tratta di un documento di importanza fondamentale perché attribuisce ai Palestinesi il diritto di auto-proclamarsi Stato indipendente e sovrano, senza aspettare il benestare di Israele. E’ motivo di meraviglia, almeno per me, che Arafat non abbia ancora utilizzato quella risoluzione dell’Assemblea generale, e abbia invece procrastinato la dichiarazione unilaterale di indipendenza. Non voglio, né potrei, dare consigli a nessuno, ma certo la pazienza dei Palestinesi è una prova di grande moderazione che nessuno può contestare.
Le risoluzioni che ho sopra richiamato contengono la soluzione (non solo sulla carta ma nella coscienza internazionale) del problema Palestina, e sono state ribadite successivamente, il 10 novembre 1975 e il 15 dicembre 1988, insieme al riconoscimento dell’OLP come osservatore all’ONU e al diritto dei Palestinesi di ritornare nelle loro case e nelle loro terre, dalle quali sono stati scacciati ("from which they have been desplaced and uprooted").
Nell’ultima risoluzione l’ONU conferma l’obbligo di Israele di ritirarsi dai territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme, e l’opportunità che ciò avvenga "under the supervision of United Nations" (sotto la supervisione dell’ONU).
Ancora una volta dobbiamo constatare che le richieste dei Palestinesi, anche di questi giorni, coincidono con le risoluzioni dell’ONU, e che gli inadempienti sono gli Israeliani.
Per finire non va dimenticata la recentissima risoluzione n. 1322 del 28 settembre 2000 con cui il Consiglio di Sicurezza richiama ancora una volta le risoluzioni 242 e 338, deplora la provocazione di Sharon sulla spianata delle Moschee, condanna "l’uso eccessivo della forza contro i Palestinesi", e auspica una rapida e obbiettiva inchiesta sui tragici eventi che sono seguiti.
Idocumenti citati parlano da soli, tanto sono chiari, e indicano l’unica possibile soluzione: la creazione di due Stati indipendenti e sovrani, con capitale Gerusalemme (divisa o internazionalizzata, almeno limitatamente ai luoghi sacri che sono patrimonio dell’umanità). Questa soluzione risale al 1947 - è opportuno ripeterlo - ed è stata ribadita dall’ONU per mezzo secolo. Ma sembra che la ragione abbia distolto gli occhi dalla Palestina dove è in atto una guerra strisciante, dove ogni giorno scorre il sangue e muoiono persone innocenti.
Bisogna fermare questo massacro quotidiano. Come? Ancora una volta la soluzione è contenuta, come è facile constatare, nei documenti citati e consiste in un intervento diretto sul terreno da parte delle Nazioni Unite, che non possono limitarsi a produrre documenti che restano pezzi di carta. Occorre la presenza immediata dei caschi blu (i Palestinesi la chiedono, Israele la respinge) che impedisca alle parti di scontrarsi.
Nel Veneto, per indicare l’interporsi (il mettersi di mezzo) a fini di pace, si usa il verbo "stramezar". Questo è il compito urgente e ineludibile dell’ONU in questo momento.
Una volta divisi i contendenti, separati i ragazzini della seconda Intifada dall’esercito israeliano, che deve rientrare nei suoi territori, si potrà incominciare ad applicare le risoluzioni dell’ONU, discutendo se necessario i dettagli (dove di solito si nasconde l’inferno della discordia).
L’ltalia e l’Europa possono svolgere un grande ruolo per ottenere l’intervento dell’ONU: eventualmente anche dichiarando preventivamente di essere pronte a riconoscere lo Stato palestinese appena verrà proclamato, facendo scattare tutti i meccanismi di protezione internazionale. Sarebbe un pacifico ma formidabile deterrente per lo Stato d’Israele, che non ha solo il volto duro di Barak o di Sharon, ma anche quello intelligente e generoso di Lea Rabin e di Simon Peres.