Il futuro dei Longobardi
Fino al 19 novembre oltre 400 opere provenienti da tutto il mondo per documentare la fecondità di incontri tra Longobardi e popoli vicini.
La storia è fatta per il presente e l’avvenire. Questa mostra presenta la sopravvivenza dell’eredità longobarda, dopo la conquista franca, dentro l’impero di Carlo Magno, con l’affermazione del proprio ruolo e della propria importanza in un ampio spazio, il quale, senza essere ancora quello dell’Europa, ne è un primo abbozzo."
Con poche ma meditate parole Jacques Le Goff, nell’introduzione al catalogo, da grande storico qual è, segnala puntualmente l’imponente mole di lavoro, di scavo e teorico che, dal 1958 in poi, ha interessato l’area bresciana e che ha fatto di questa città e in particolare del Monastero di San Salvatore-Santa Giulia, sede di uno dei più importanti musei del mondo, il luogo ideale, "depositario di testimonianze uniche" (fu voluto dall’ultimo re longobardo Desiderio e dalla sua donna Ansa) per una così esauriente esposizione.
Si intraprende così un viaggio, oltre che nel tempo, nello spazio: nell’Italia dei primi insediamenti, dei monasteri e dei ducati longobardi, e nei rapporti che questo popolo stabilì con altri popoli d’Europa.
In modo analitico e puntuale nelle prime sale è presente il linguaggio della guerra, ma anche le testimonianze della società materiale (società rurale e oggetti di distinzione sociale) tipiche di arredi funerari, come nel caso degli orecchini della tomba 7 di Civezzano...
Con parole forti Paolo Diacono documentò l’arrivo dei Longobardi in Italia: "Furono spogliate le chiese, furono scannati i sacerdoti, furono rase al suolo le città e gli abitanti uccisi... così tutta l’Italia fu in massima parte conquistata e resa schiava." Ma pian piano l’integrazione tra le aristocrazie germaniche, la cultura latina e cristiana e i raffinati prodotti del mondo bizantino si renderà sempre più esplicita.
Il racconto di questo popolo si snoda lungo quasi tutto l’arco peninsulare ed europeo, ma ci parla nello specifico di città come Cividale, Verona, Brescia, Pavia, e poi di Lucca e dei centri minori della Tuscia, fino ad arrivare a Spoleto, con il suo straordinario stile classicheggiante della grande chiesa di San Salvatore e del tempietto del Clitumno nei suoi dintorni, segno inequivocabile di una committenza d’élite, Capua e a Benevento e dintorni, con monasteri ed opere d’arte che sì imitano l’arte bizantina, ma con esiti originalissimi.
In generale la linea di evoluzione di un gusto, di un segno peculiare, l’affermazione di una propria identità conoscerà accelerazioni sorprendenti fino ad anticipare il romanico: guardando alla decorazione scultorea di alcuni plutei (quello di Lucca o leoni di Capua...) o alla mano dipinta sopra la tomba della badessa Ariperga, non risultano sorprendenti le analogie con la sensibilità infantile nelle opere in mostra sempre a Brescia in Palazzo Martinengo?
La grande efficacia espressiva non sembra allora costitutiva di una identità in formazione, di quella di un bambino come di quella di un popolo quando assistiamo al suo prepotente ingresso nella storia?