“Scuola e istruzione”
Gli analfabeti “strumentali”, in Italia, sono oggi sotto il 2% della popolazione. Molti di più quelli “funzionali”.
Il fascicolo "Scuola e istruzione", pubblicato da Il Sole-24 ore nell’ambito dell’iniziativa "Duemila: per capire le sfide che dobbiamo raccogliere", propone una pluralità di contributi (quasi) tutti interessanti. Che vanno letti con attenzione, anche perché il giornale è prestigioso e diffuso, è di quelli che fanno opinione, verso il basso della società civile più colta, e verso l’alto delle classi dirigenti chiamate alle scelte politiche.
Pluralità di contenuti dicevo, ma privi di un comune asse strategico riconoscibile. Ogni autore traccia il suo solco, e mai incrocia, per interpellarlo consapevolmente, il solco vicino. Come a scuola in sostanza, almeno nei gradi più alti, in cui ogni docente guida la classe che gli è toccata dopo essersi ben chiuso alle spalle lo sportellone, per affidare l’aereo dopo un’ora, anzi 50 minuti, al pilota seguente, che pure sbarrerà porte e finestre per garantire la sicurezza dei passeggeri.
E’ colpa del giornale l’assenza di un perno, culturale e politico, attorno al quale far ruotare gli approfondimenti su temi specifici? E’ una colpa deontologica degli insegnanti l’incapacità di comunicare fra loro? O siamo, il "24 ore" e i docenti, che lo leggono ognuno chiuso nel salotto di casa, lo specchio che rimanda la caratteristica più profonda e inquietante della società attuale, post-moderna si dice? Quanta consapevolezza ne abbiamo? E dobbiamo reagire con energia, o adattarci, con intelligenza, ad una tendenza irreversibile?
Un esempio soltanto. Un dato statistico e storico ricorre in più articoli che palesemente si ignorano. Il paginone centrale riferisce che gli analfabeti nel 1951 sono in Italia "ancora" il 13%, all’interno però di una battaglia per l’alfabetizzazione di lunga durata. Il 13% ricompare nell’articolo di Marina Ruggero, prodotto insieme delle leggi che sanciscono l’obbligo, emanate dallo Stato unitario per "fare gli italiani dopo aver fatto l’Italia", e dei comportamenti concreti di "reazione" sia del ceto dirigente sia del popolo, pressato dall’esigenza di avviare precocemente i figli al mestiere.
Il dato ritorna, ma la valutazione, arricchita da confronti storici e sociologici, risulta più aspra, nell’articolo di Tullio De Mauro, in cui esso rappresenta i soli analfabeti strumentali, cioè coloro che non sanno, nemmeno compitando, graffire e riconoscere le lettere dell’alfabeto. Più grave è la situazione dell’analfabetismo funzionale, cioè di chi "non può leggere e scrivere, comprendendolo, un breve e semplice testo sulla vita quotidiana". Nello stesso anno, il 1951, l’analfabetismo strumentale è completamente debellato in molti paesi, dall’Austria alla Svezia, ridotto sotto il 4% in Francia e negli Stati Uniti, al 7,5% in URSS. All’inizio del secolo però questo genere di analfabeti era del 48% in Italia, mentre nel 1921 in URSS era ancora del 50%.
Oggi, a leggere il paginone centrale, "la guerra è vinta": in Italia "il tasso di analfabetismo è marginale, pari all’1,3%". Per Tullio De Mauro invece gli analfabeti strumentali superano ancora il 2% della popolazione, quelli funzionali sono il 20% degli stessi possessori di licenza elementare e media.
Basti il confronto su questo dato per intendere la gravità del problema, e la diversità, inconciliabile, dei punti di vista. Non spaventino i numeri, freddi. Nel fascicolo anzi, e questo è un limite grave del curatore, non ci sono né tabelle né grafici: dal giornale della Confindustria, dopo averlo consigliato a colleghi e a studenti, mi aspettavo a questo proposito uno strumento di lavoro più ricco. In un articolo, di Daniele Checchi, si fa addirittura riferimento a tabelle e figure che sulle pagine non compaiono affatto.
L’analisi potrebbe continuare su altri temi, a provare l’assenza di un asse unitario. Il paginone storico riconosce una valenza riorganizzatrice alla riforma firmata nel 1923 da Giovanni Gentile. Il movimento studentesco, che avversa la selezione e la meritocrazia, è interpretato come una contestazione postuma del filosofo, e quindi sarebbero un ritorno alla sua serietà le riforme scolastiche dei nostri anni.
Di diverso parere è Andrea Casalegno, che vede in Gentile la volontà, più in nome dell’idealismo che del fascismo, di tenere separate l’istruzione per le élite dirigenti da quella per le classi popolari, e la cultura umanistica da quella scientifica, degradata a sapere strumentale. La svolta si ha nel 1963 con la "grande riforma" della media unica, sulla cui scia si pone la riforma oggi in discussione, che punta a "unificare" elementari e medie, a rendere più unitario il percorso successivo, ad elevare l’obbligo per alfabetizzare tutti e selezionare i migliori.
Senza remore nel qualificare fascista la riforma gentiliana è infine Giuseppe Ricuperati, per il suo impianto autoritario e selettivo, volta a formare una classe dirigente intesa come "aristocrazia etica e culturale".
Gli articoli, quasi tutti, richiamano con forza un problema, anzi "il" problema: il bisogno, alle soglie del terzo millennio, di utilizzare gli strumenti informatici. Essi sono ricchi di potenzialità: la nuova frontiera del sapere che si sposta, per Marina Ruggero; la nuova alfabetizzazione, per Andrea Casalegno; il luogo dell’impegno futuro, per Tullio De Mauro. Secondo Giuseppe De Rita, il ritardo della scuola in questo campo, è la causa principale della sua marginalità, e della sfiducia crescente da parte delle famiglie. Strumento duttile, ma caduco, rispetto alla carta stampata, per Tullio Gregory. Né profeta disperato, né cantore radioso, si dichiara Roger Chartier.
L’incapacità, o l’impossibilità, di elaborare sui vari temi una riflessione unitaria, dipende, io penso, dall’intersecarsi di due prospettive diverse, prima ancora che sulla scuola, sulla storia e sul mondo: l’una più pessimistica e rassegnata, l’altra più fiduciosa e impegnata. "La scuola ha smesso di essere un luogo di educazione e di emancipazione", "trasmette l’ineguaglianza più che ridurla", c’è "una rottura duratura e profonda tra la cultura della scuola e la cultura dei giovani", scrive - ed è un "de profundis" per la scuola europea - Alain Touraine.
Gli stessi giorni in cui leggo questi articoli partecipo a un corso su Internet, e spiego in aula, a ragazzi di 18 anni, l’aratro, il prunalbo, il fanciullino di Pascoli. La rondine che torna al suo nido è in concorrenza con i suoni e i colori cangianti di Bill Gates: ha ancora senso difendere la trincea del pianto di stelle, con la sua nebbia e i suoi lampi notturni? Non mi consola la difesa della cultura umanistica ad opera di Giovanni Reale. Quando i miei figli, liceali, sono in difficoltà di fronte a una frase latina, corrono a cercare soccorso dal padre: io lo so che fino al Settecento chi padroneggiava la lingua di Cicerone deteneva il monopolio del sapere. Ma se mi inceppo nell’uso del Word o nell’invio della posta elettronica, sono io che cerco aiuto da loro. Che cosa sta succedendo?
Tuttavia non me la sento di cancellare "Il gelsomino notturno", e non solo, credo, perché il programma lo impone.
Il quotidiano della Confindustria, a parlare di scuola verso il 2000, chiama a raccolta, De Mauro e Gregory. E poi Chiara Saraceno, sull’istruzione e le donne, e Giuseppe Ricuperati, su scuola pubblica e privata. E Alessandro Cavalli, su "un senso civico tutto da costruire": "dubito fortemente che la scuola sia oggi un luogo privilegiato dove si formano tratti di una cultura democratica".
Questi sono nomi che incontriamo sui giornali e le riviste della sinistra: dice nulla questo? Ricuperati, pur con qualche imprecisione (che significa dire "la Costituzione ribadì la libertà di insegnamento, ma senza oneri per lo Stato"?), ripercorre con spirito laico la storia del rapporto fra Stato e Chiesa, per auspicare, nell’ambito dell’autonomia, la nascita di "un nuovo concetto di pubblico".
Eppure io non scorgo, nemmeno in questi articoli, quell’asse unitario che in certi momenti vado cercando. Critici e fiduciosi mi paiono, questo sì, ma i loro sono solchi che non si toccano.
Forse non sappiamo bene ciò che è importante insegnare ai cuccioli oggi, né la direzione più urgente del cambiamento. Dobbiamo però, insegnanti e studenti, entrare in aula ogni mattina, e arrabattarci nell’attesa che le cose diventino un poco più chiare. Il Sole-24 ore qualche certezza in più la possiede, ma è esposta nei fascicoli dei mercoledì precedenti, quelli sulla storia e sull’economia. E sono un elogio della Modernità, senza dubbi di sorta.
"Solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce" - scrive Dario Antiseri. L’ipertrofia dell’io comporta la riduzione di ogni concetto collettivo, di nazione. di partito, di classe, di popolo, di rivoluzione. La società di mercato brilla alla "fine della storia":l’alternativa sarebbe un mondo pietrificato. Angelo M.Petroni teme addirittura che visioni morali collettivistiche si ripresentino riciclate sotto le forme di responsabilità verso la "natura" o verso "le generazioni future".
A scuola le contraddizioni vanno invece portate con umiltà e pazienza. Forse non è un caso che Il Sole non affidi a intellettuali come questi la riflessione sul rapporto fra scuola pubblica e scuola privata: i nodi gordiani li taglierebbero con un colpo d’accetta. Perché l’individuo moderno è certo più libero, ma anche più solo. E la scuola è insieme disciplinamento e liberazione. C’è antinomia fra le esigenze della realizzazione individuale e quelle, ugualmente legittime, della trasmissione del patrimonio culturale di una società. Fra la centralità del talento naturale e la necessità di fornire a tutti gli strumenti di base. Fra il preparare a un lavoro che inserisca nel sistema produttivo e l’educazione alla creatività. Fra lo sviluppo del pensiero e il bisogno dell’emozione. Fra il valore dell’identità particolare e la tensione all’universalità.
La scuola, divenuta di massa, non ti lascia in pace, quando la pensi e quando lavori sul campo, perché ogni risposta è un guadagno e una perdita, un acquisto di libertà e una rinuncia. Per frequentarla bisogna essere dentro ed essere fuori, essere se stessi ed essere altri. L’uomo privo di educazione parve in certe epoche pericoloso per la società, e in altre parve sovversivo l’uomo istruito. Strumento il più sicuro, l’educazione, ma il più difficile, per prevenire i reati, scrisseBeccaria.
Non danno sulla scuola risposte univoche gli studiosi dell’inserto de Il Sole-24 ore: speriamo che li leggano anche gli economisti, gli storici, i politici, gli scienziati più disposti ai proclami nei numeri precedenti (e forse anche seguenti).