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QT n. 20, 21 novembre 1998 Servizi

Nomina dei vescovi: è possibile cambiar sistema?

Un tempo erano i fedeli a scegliere il loro pastore, poi...

Luigi Sandri

Sulla stampa locale e nei circoli ecclesiastici (e forse anche politici) della Provincia, molti si chiedono chi sarà il nuovo vescovo, e pochi, invece: "Ma chi sceglie il successore di mons. Sartori? ". Ci pare invece utile porci questa domanda: essa apre un problema che sovrasta Trento, per attingere la storia bimillenaria della Chiesa latina.

Nei primi secoli della Chiesa - e ciò forse stupirà sia tanti "buoni cattolici" che tanti laici, che non lo sanno, o l'hanno dimenticato - i vescovi erano eletti dall'insieme del "popolo di Dio", dai cristiani cioè di una data Chiesa locale (diocesi). I vescovi delle diocesi viciniore, o della "metropolìa" (insieme più vasto di diocesi di un determinato territorio), consacravano poi il nuovo vescovo, come segno della comunione esistente tra loro, e del fatto che l'eletto entrava in una "rete" che risaliva agli apostoli (non tocchiamo, qui, il problema teologico di che cosa significhi "successione apostolica"). Dunque, immaginare - con un'operazione subconscia di retrodatazione della prassi attuale - che il vescovo di Roma nominasse personalmente i vescovi di tutte le diocesi, almeno in Occidente, è pura fantasia. Di solito il papa veniva a sapere molti mesi dopo che la tal diocesi aveva scelto il tal vescovo. E i papi non solo tolleravano questa prassi, ma la ritenevano quella più giusta e normale. "Sia consacrato vescovo chi è eletto dall'intero popolo" raccomanda la Traditio apostolica di Ippolito (regolamento in uso a Roma nel III secolo). E papa Leone Magno scriveva nel 445: " Chi dovrà sorvegliare tutti, da tutti sia eletto".

Ne è da pensare che i primi secoli della Chiesa siano stati "tempi d'oro", durante i quali la diocesi partecipava concorde alla scelta del proprio vescovo. Certo, si sono dati di questi casi. Famoso quello di Milano, ove nel 374 un bambino indicò Ambrogio - che non era nemmeno battezzato! - come nuovo vescovo, e proprio lui fu così scelto da tutti a guidare la città (fu Ambrogio che inviò al vescovo Vigilio di Trento i tre missionari provenienti dalla Cappadocia bizantina, poi martirizzati in Val di Non nel 397). Ma, spesso, la scelta del nuovo vescovo dava adito ad aspri dissidi tra il "popolo di Dio" della diocesi, diviso tra chi voleva come vescovo X e chi Y. Insomma, allora come oggi vi erano nella Chiesa opinioni diversificate; e ciò non creava scandalo. Solo in casi molto complessi la scelta del nuovo vescovo fu tolta alla diocesi interessata, e affidata al metropolita e, talora, a Roma.

Con il passare dei secoli, il clero - l'intero clero, poi una parte del clero, poi alcuni preti più importanti per sede o per uffizio - cercò di tenere nelle sole sue mani il diritto di scegliere il vescovo. Il popolo fu così espropriato di un diritto nativo; o alcune famiglie nobili, o principi e re, pensarono di essere essi, da soli, "il popolo", per cui si accaparrarono il diritto di scegliere il vescovo. Ciò portò a forti contrasti tra clero e potere laico. Questa, grosso modo, la situazione che in Occidente (l'Oriente ha una sua storia, ed una sua gelosa autonomia), a cavallo dei due millenni, sfocia nella "lotta delle investiture": i Papi, e gli imperatori di Germania, eredi del Sacro Romano Impero, si contendono il potere di dare ad un vescovo il feudo, o benefizio, di una diocesi. E quindi di sceglierlo.

Quando, come a Trento, il vescovo è anche principe, la situazione è ancor più complicata. Con un processo non lineare, e contrastato, diciamo che, a poco a poco, nella seconda metà di questo millennio Roma è riuscita ad avocare a sé la nomina di quasi tutti i vescovi della Chiesa latina (che costituisce il 95% della Chiesa cattolica, dato che le Chiese orientali cattoliche, che hanno una loro autonomia per la scelta dei vescovi, sono una piccola minoranza). Solo qua e là - come nelle diocesi svizzere di Coira e Basilea - il capitolo della cattedrale è riuscito a mantenere un diritto di scelta del proprio vescovo, o comunque di presentazione di una terna di nomi all'interno della quale Roma dovrebbe scegliere. Il Codice di diritto canonico del 1917 condensa così il processo di centralizzazione ormai terminato a favore di Roma: "Il romano pontefice nomina liberamente i vescovi" (canone 329). E ciò per evitare interferenze in un affare tanto delicato. In linea di principio, dunque, sia il potere civile e politico, che le altre possibili istanze ecclesiali, sono tagliate fuori dalla scelta dei vescovi. Tra le rarissime eccezioni a questa norma vi è la Convenzione del 1941 tra la Santa Sede e il Governo spagnolo. Questa stabilisce: il Nunzio apostolico a Madrid, insieme con il governo, inviano a Roma almeno sei nomi di "papabili" per una sede episcopale vacante; tra questi, il Papa sceglierà tre nomi e, quindi, il Capo dello Stato spagnolo tra i tre indicherà il vescovo. Questa Convenzione fu confermata dal Concordato del 1953. Come mai questo enorme privilegio al dittatore Francisco Franco? Perché Pio XII intendeva così ringraziare il Caudillo per aver impedito la vittoria dei repubblicani nella guerra civile della fine degli anni Trenta, ed aver costruito uno Stato "cristiano".

Il Concilio Vaticano II (1962-65) descrive la Chiesa (cattolica) come "il popolo di Dio" pellegrinante nella storia, e insiste sulla pregnanza della "Chiesa locale" (diocesi). La logica conseguenza di questa ecclesiologia sarebbe che il "popolo di Dio" di ogni diocesi avesse voce in capitolo nella scelta del suo vescovo. Ma il nuovo Codice di Diritto Canonico varato da papa Wojtyla nell'83 afferma: "Il Sommo Pontefice nomina liberamente i vescovi, oppure conferma quelli che sono stati legittimamente eletti" (can.377). La seconda parte del canone potrebbe lasciare aperta una piccola strada per importanti innovazioni. Di fatto, però, salvo eccezioni (come quelle delle diocesi svizzere; Madrid nel post-Concilio ha rinunciato ai privilegi concessi da Pio XII), la nomina dei vescovi continua ad essere ferreamente in mano a Roma. Questa centralizzazione ha motivazioni storiche, che si possono variamente giudicare. Ma può continuare così? Con crescente frequenza essa è contestata dai cattolici - teologi, storici e gente comune - in vari paesi, perché essa è anomala sia nei confronti dei primi secoli, che nei confronti dello spirito del Vaticano II. Chiedere di cambiarla, dunque, non è affatto un'idea insensata. Così, questa richiesta di cambiamento apre l'Appello dal popolo di Dio lanciato in Austria nel '95, e poi diffusosi in vari Paesi, Italia inclusa. Complessivamente, l'Appello ha raccolto due milioni e mezzo di firme, che sono state presentate in Vaticano l' 11 ottobre 1997, ma senza ottenere risposta.

Come cambiare? Ci sono, in proposito, varie ipotesi: dare voce ufficiale ai Consigli pastorali (che rappresentano i preti ed i laici di una diocesi), dare voce decisiva (come in Svizzera) al capitolo della cattedrale, affidare alla Conferenza episcopale della propria nazione, in dialogo con la Diocesi interessata...

Certo, l'auspicato cambiamento dovrà essere progressivo e ponderato. Comunque, non sarà indolore. Se e quando ci sarà, si assisterà infatti a pubblici contrasti; ma forse meglio questi, che non le lotte sotterranee (ma non per questo meno dure) che incombono, con il peso delle lobbies, sull'attuale prassi. Investire il "popolo di Dio" della scelta del proprio vescovo potrebbe apparire ad alcuni, digiuni di storia, una rivoluzione. Ad altri, invece, un peso insopportabile: il "sono affari loro" (cioè dei preti, o del Vaticano) è il diffuso sentimento del cattolico medio, espropriato da secoli di ogni diritto di reale parola nella sua Chiesa, e quindi atterrito all'idea di doversi interessare "perfino" della scelta del suo vescovo. Eppure, coinvolgere realmente il "popolo di Dio" della diocesi in un tale impegnativissimo atto sarebbe la via maestra per inverare quella "corresponsabilità", auspicata dal Concilio, di ogni battezzato/a nella propria Chiesa locale, sinfonicamente inserita nella Chiesa universale. E, ancora, sarebbe una delle modalità per cambiare il modo storico di esercitare il ministero del vescovo di Roma. Lo stesso Giovanni Paolo II, nell'enciclica "Ut unum sint" (1995), ha coraggiosamente ammesso che il papato, così come è esercitato oggi, è uno degli "ostacoli maggiori" alla riconciliazione di tutte le Chiese cristiane.

Occorre, dunque parola di Papa cambiare non certo la "sostanza", ma di sicuro l'esercizio del ministero petrino. Ora, una delle circostanze che danno al papato, oggi, un potere immenso, sconosciuto al primo millennio, è esattamente la concentrazione nelle sole mani del papa del diritto di nominare (quasi) tutti i vescovi cattolici. Non è detto che anche la sola "sostanza" del primato petrino, purificata da incrostazioni storiche, sia facilmente accettabile dalle Chiese non cattoliche. Ma è certo che oggi questa "sostanza" è come velata da una serie di poteri come il monopolio della nomina dei vescovi che non necessariamente fanno parte indissolubile del carisma petrino. Porre, dunque, il problema del cambiamento del "modo" della scelta dei vescovi, è porre un problema ecclesiologico ed ecumenico ineludibile. Ipotizzare questi cambiamenti che, ripetiamo, sorpassano Trento, coinvolgendo tutte le diocesi della Chiesa latina nel mondo è sogno? utopia? Ma la Storia è piena di utopie che poi si sono realizzate, se qualcuno prima ha osato sognarle.

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