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QT n. 10, ottobre 2020 Seconda cover

“Eroi! E poi ci danno le briciole...”

A colloquio con infermieri e operatori socio-sanitari di ospedali e Rsa. I mesi dell'incubo hanno insegnato qualcosa e ora si è più preparati. Rimane la durezza del lavoro per la scarsità di personale e l'insoddisfazione per le retribuzioni.

Renzo M. Grosselli

La struttura sanitaria trentina pare oggi preparata ad affrontare una sempre più probabile seconda fase di espansione dell’epidemia da Covid19. E il personale di prima linea pare conscio di questo. Negli ospedali soprattutto. Se parliamo invece di Rsa ed altre entità socio-sanitarie, la risposta che ne viene è molto diversa. Stanchezza nel personale. Che non solo ha combattuto la prima fase a mani nude e che alla fine si è visto beffato con premi “a metà”. Ma che, a seguito della insufficienza cronica di personale, in vari casi non ha potuto riprendere fiato in questi ultimi mesi. E teme di nuovo una turnistica che nella prima fase in alcune strutture era diventata insostenibile. Oltre che pericolosa. La qual cosa potrebbe far prevedere problemi organizzativi, dovuti anche ad un più alto tasso di assenteismo.

Abbiamo avvicinato Oss e infermieri, sia in ambiente ospedaliero che in quello assistenziale. Abbiamo garantito loro l’anonimato (nomi di comodo e niente dati sensibili per l’identificazione), chiedendo con quale animo si preparino ad affrontare la nuova evenienza. Le risposte ottenute dagli ospedalieri, a Trento e fuori, possono essere riassunte in ciò che ci ha detto un infermiere con molti anni di servizio ed in vari reparti, inclusa la Rianimazione.

Carmelo, siete stanchi dopo la tempesta di febbraio-maggio?

In gran parte abbiamo potuto recuperare. Nella fase post Covid abbiamo gestito molto bene le ferie e la cosa ci ha permesso di lavorare con un po’ di tranquillità. Ad alcuni colleghi che hanno sofferto molto durante il Covid, si è deciso di proporre un’altra sede. Chi ha chiesto di lavorare non in diretto contatto con i pazienti Covid, ha ottenuto di poterlo fare”.

Questo significa che tra le vostre file non c’è un grande timore per ciò che ci aspetta?

Parlo per me ora. – risponde pronto Carmelo – Avverto una certa paura, ma non solo dovuta al mio lavoro. Ne avverto di più per ciò che sta succedendo fuori dall’ospedale. Per la poca responsabilità della gente. Sono appena tornato dalle ferie nelle Marche e l’impressione che ho avuto è che molta gente non riconosca ancora la pericolosità della pandemia. Noi lavoriamo a diretto contatto con la morte e anche tutto questo parlare a livello mediatico del Covid, non ci aiuta”.

In compenso, rispetto ai primi mesi dell’anno le dotazioni di presidi sanitari oggi sono molto più cospicue. Ecco Silvana, una Oss che ha operato in un reparto ospedaliero di punta della battaglia tra il febbraio e il giugno scorso: “Durante quella fase abbiamo capito ciò che ci sarebbe servito e quindi sono stati ordinati quantitativi importanti di presidi, farmaci, eccetera. La direzione si è mossa”.

Lei pare avere una visione positiva circa l’operato dell’Azienda Sanitaria.

Pericoli ce ne saranno sempre e ci sono spazi di miglioramento. Ma si tratta di un fatto internazionale non solo nostro. C’è poca chiarezza, persino a livello di O. M. S.. In questo momento non sappiamo nemmeno se ci arriverà addosso un’onda anomala come a febbraio... Le previsioni direbbero che l’urto possa essere minore”.

Con la sua esperienza, ci crede?

Mi pare che il nostro sistema sanitario sia molto organizzato oggi: si fanno molti più tamponi e quando appaiono i sintomi è subito quarantena. Ma molto dipende da ciò che farà la popolazione. Se seguirà le regole o meno. Ieri ho sentito al Tg che vogliono aprire gli stadi. Che succederebbe? Ogni volta che ampliano un po’ di più nel sociale, ci sono poi delle ricadute sul settore sanitario. Il timore è anche un altro: che il virus si sia modificato. Ma io sono ottimista”.

Ricordiamo che nemmeno il rientro a scuola ha ancora fatto sentire i suoi effetti. Che ci saranno.

“Ci vorrebbe una persona in più...”

Sono meno positive le aspettative di infermieri ed Oss che operano sul fronte assistenziale. Serena, operatrice socio sanitaria, ha meno di trent’anni e solo da qualche anno lavora in una Rsa nella zona del Roveretano. Ci fa capire subito quale potrebbe essere il problema in caso di una fase Covid “esasperata”: “Operiamo in tre per ogni nucleo. Con una ventina di anziani, su tre turni. Mattina, pomeriggio e notte. Mi sembra che il nostro lavoro sia ‘tirato’. Due fanno servizio nelle stanze ed uno in sala, cioè con gli autonomi - mentre nelle stanze ci sono i parzialmente autonomi ed i non autonomi. Poi i pasti, gestione dei carrelli e così via. Ci vorrebbe una persona in più, almeno sui due turni di giorno”.

Con mascherine, tute, eccetera oggi va bene?

Al bisogno ne abbiamo e credo abbiano pensato anche per il futuro. Ma per il personale ci sarebbero problemi già ai primi casi di malattia”.

Si dovrebbero allora aumentare gli orari della turnistica e sarebbe dura. Oppure assumere. Gente giovane, forse non troppo preparata e mandata comunque in avanscoperta a tempo determinato. Serena, ti senti tranquilla?

Abbastanza. Anche perché cerco di fare il massimo per la mia e altrui sicurezza. Non solo dentro la struttura, ma anche fuori, per evitare il contagio. Per gli acquisti di casa lascio che sia mia madre a farli. Ho molti amici e voglia di divertirmi… ci si trova lo stesso, ma c’è l’accordo che in caso di qualche sintomo anomalo, uno non si presenta. E adottiamo tutte le precauzioni, dal distanziamento alla mascherina al chiuso. Niente abbracci e disinfettarsi spesso”.

Ma non è per tutti così. Valentina, più di trent’anni, con noi è sintetica: “Il Covid è una questione politica. Certo, l’infezione esiste ma il mondo politico per questioni strumentali sue sta drammatizzando”.

Credi davvero a questa cosa?

Non so se ci credo, ma mi frulla in testa. E ci sono alcuni di noi che dicono che sarebbe addirittura l’ora di lasciar perdere le mascherine. ‘Si è sempre morti, magari di altre malattie’”.

Un brivido lungo la schiena, ma poniamo alla signora un’altra domanda.

Come si sta comportando la sua Rsa quando di questi tempi qualcuno di voi si ammala?

Mandano un part time. Diciamo che dalle sei e mezza di mattina alle 8 siamo in due, poi fino a mezzogiorno e mezzo ritorniamo in tre. Quindi è molto più dura. Già il personale non è proprio sufficiente e con le assenze la cosa peggiora. Sperando che il Covid, non entri in struttura”.

Aurora, che ha un paio di figli minori di dieci anni e che di anni ne conta 33, lavora in un ente socio-assistenziale.

Ha qualche timore per la nuova fase Covid?

Ci arriviamo preparati. Se il virus sarà lo stesso, i presidi ci sono e, conoscendo i problemi gravi avuti nella prima fase, anche l’istituzione mi pare preparata”.

In certi istituti sono state richieste al personale ‘non caduto sul campo’ anche turni di 12 ore di fila. Per molte settimane. Col virus che girava per la sede e, nelle ultime settimane con lo ‘scafandro’ in cui non era facile sentirsi a proprio agio e lavorare bene. Per il caldo insopportabile, il sudore. Lei si sottoporrebbe a questi turni se glielo chiedessero?

Io l’ho fatto. Ma adesso ci penserei due volte. Soprattutto a sottoporre ad un grave rischio la mia famiglia. Ci può stare tutta la bardatura. E persino le 12 ore. Io il mio lavoro di Oss voglio farlo col cuore. Non per lo stipendio. Ma il discorso è come si è trattati pur con quella turnistica. Io ho visto che non ci hanno proprio considerati. Nessuno si è messo nei nostri panni, dentro quelli scafandri da cui ti potevi togliere solo mezz’ora, per mangiare. Attento, una mezz’ora non retribuita, lo hanno fatto solo in seguito. Non ci ascoltavano e pensavano a creare nuove procedure che ci mettevano in difficoltà. Siamo rimasti in pochi alla fine, ma non ci tenevano informati, non chiedevano nemmeno il nostro parere. E non avevamo scelta. Non era prevista aspettativa Covid o il congedo parentale per Covid, che il governo ha dato a tutte le altre categorie non mediche... ci era stato tolto tutto. La stanchezza era tremenda. Minimo tre giorni a 12 ore e poi due giorni di riposo. Chi tornava a casa e non rimaneva in albergo per non infettare la famiglia, tornava sfinita psicologicamente, oltre che fisicamente, e non aveva contatti umani con i familiari. Io mi facevo la doccia, mettevo la mascherina e stavo con la bambina piccola per addormentarla. Poi andavo a dormire in un’altra stanza. Due mesi e mezzo”.

Se sopraggiungerà una nuova fase delicata della pandemia?

Non tollereremo più il modo in cui siamo stati trattati. Penso comunque che tutto sia migliorato: sappiamo quando vengono fatti i tamponi sugli ospiti, i risultati, c’è l’isolamento. Siamo più preparati. Ma siamo ancora scarsi di personale e se ci saranno due o tre ‘caduti’, saremo punto e a capo”.

Aumenterebbe l’assenteismo secondo lei?

Non voglio risponderle su questo. Ma so che siamo carenti di personale. Non è concepibile fare turni di 5 o 6 giorni di fila, senza poter fare regolari ferie. In tanti sono stremati. Chi è stato a casa per Covid, poi ha dovuto sottoporsi a turni impressionanti”.

L’umiliazione dei “premi Covid”

Poi, la questione delle remunerazioni e dei premi Covid. Che hanno visto notevoli differenze tra struttura propriamente sanitaria e Rsa: “Abbiamo preso il premio provinciale che spettava a tutto il personale sanitario. Ma di una entità diversa tra dipendenti dell’Azienda Sanitaria e delle Rsa o Apsp. E per coloro che avevano un contratto part time, anche se facevano il tempo pieno e con quei turni, il premio è stato calcolato sul part time. Ed è stato tassato. Io ho fatto più di 200 ore nel periodo previsto ed ho ricevuto 400 euro, la mia collega, con le stesse ore ma con contratto a tempo pieno, ne ha ricevute 800. E abbiamo pagato un’aliquota altissima di imposte, come sugli straordinari. E la differenza di premio tra Azienda e Rsa ha umiliato tutti. Ha fatto male dentro. Eroi... e poi darci le briciole e più scarse che ad altri!”.

Un’ultima considerazione che Aurora propone spontaneamente: “Mi auguro che se ci sarà la seconda ondata, si pensi anche alle reali necessità degli ospiti delle Rsa: quasi tutti sono rinchiusi da un anno, senza possibilità di avere un contatto fisico e reale con i familiari. Cadere in una seconda fase, senza contatti e con scarso personale? Ne morirebbero molti, anche senza virus”.