Lois Anvidalfarei: Viandanti
La natura ferina dell’uomo Pergine, Castello, fino al 31 ottobre.
Il sentimento della vulnerabilità ha cominciato a farsi incalzante ben prima della pandemia. Già l’anno scorso, nella prima stagione della gestione “comunitaria” di Castel Pergine, la mostra dello scultore Giuliano Orsingher si era confrontata con le inquietanti domande sollevate dalla inaudita tempesta dell’anno prima. La mostra per il 2020, curata da Alessandro Fontanari Nerofonte e già in allestimento quando il virus ci ha colpiti, è ancor più radicalmente orientata alla precarietà della specie, ci parla della violenza dell’uomo sull’uomo e della tragicità stessa della condizione umana.
I modi di questo scultore ladino, Lois Andivalfarei, nato a Badia nel 1962, generano nel bronzo continue tensioni, una materia piena di corrosioni ma poi levigata, corpi umani pesanti ma sollevati da terra, violati ed esposti. L’enorme testa rotolata vicino all’ingresso del castello (Mediterraneo, 2018) non lascia dubbi su ciò che ci aspetta nel seguito, e più avanziamo più siamo presi da una sensazione dolorosa, quella di chi percorre una via crucis. È un’immersione sacrificale dalla quale non sappiamo come emergeremo, fin verso la fine del percorso, quando il tragico sembra trovare uno sbocco, una forma di liberazione, in una sorta di “assunzione al cielo” (David, 1998).
A ben guardare, però, le opere di Anvidalfarei sono tutt’altro che uniformi nel tempo. C’è uno stacco piuttosto evidente tra la compatta, arcaica presenza di un personaggio come Johannis (1991) e, ad esempio, la palpitante, gestuale figura femminile che si incontra all’interno (Ita est, 2017). Ambedue opere coinvolgenti, una ieratica, l’altra sofferente e molto più imbevuta di quella sensibilità espressionistica che l’autore ha coltivato anche nella sua formazione viennese.
Sotto un certo aspetto, si ha l’impressione che lo scultore, nelle diverse fasi della sua ricerca (ma forse anche nel passaggio da un’opera all’altra) per inseguire accenti diversi su un medesimo tema, si misuri con il grado di realismo a cui spingere il suo lavoro, e non abbia, su questo punto, una posizione aprioristica. Lo vediamo, ad esempio, nei due diversi modi in cui ha affrontato il tema che potremmo chiamare del patibolo: atroce, ma ridotto a forme quasi abbozzate nel corpo tozzo, appeso dai piedi, accanto alle braccia mozzate in Stanga della condizione umana, del 1996; implacabilmente realistico, invece, nell’Ecce Homo del 2009.
Un discorso analogo, su questa duplicità di modi, si può fare osservando il corpaccione di certe figure tanto massicce da parere animalesche, come si nota anche nelle mani e nei piedi più simili a zampe (Il male, 2007; La conversione, 2008), dove la natura ferina della nostra specie prende un accento quasi simbolico. Mentre invece i corpi martoriati, talvolta mutilati, nella loro sofferenza hanno per lo più fattezze pienamente e finemente umane. Come quelli ingabbiati, con potente contrasto e riferimento alla contemporaneità, in una maglia di tubi dalmine; o come il corpo di donna esposto anch’esso come vittima sacrificale, a braccia aperte, rivolto verso il cielo, su un traliccio di tubi in cima a una torre.
Così, o in modo molto simile, si esponevano, in altre epoche, i condannati e torturati, così si esercitava e si conservava il potere. Oggi, le vittime dei rapporti di sopraffazione e disuguaglianza si preferisce nasconderle, o semplicemente non vederle. Forse è anche per questo che Anvidalfarei le mette tanto in evidenza.