Giuliano Orsingher: “e-vento”
Quando la Natura interroga. Castello di Pergine, fino al 4 novembre Giuliano Orsingher: “e-vento”
Giuliano Orsingher non aveva avuto bisogno di eventi catastrofici per cominciare, negli anni Ottanta, a occuparsi della natura, facendone anzi il centro della propria ricerca di scultore. Chiamato a misurarsi oggi, nella prima mostra annuale organizzata dalla nuova Fondazione che ha acquistato Castel Pergine attraverso un’iniziativa comunitaria, con l’inaudita tempesta che ha devastato nell’autunno scorso i boschi alpini, lo vediamo muoversi tra due polarità: quella di un immaginario mitico e antropologico che è da sempre nelle sue corde profonde, e l’inedita situazione di collasso che pone inquietanti domande sulla sostenibilità stessa del nostro uso delle risorse naturali. Due polarità non per forza contraddittorie, ma certo non facili da conciliare.
L’anima “primordiale” di Orsingher sta in quella sua necessità di usare i materiali della natura, come i legni e le pietre portati dai torrenti, per costruire una costellazione di metafore e simboli, pensando proprio al rapporto uomo-natura fin dalle sue fasi iniziali, quando, prima ancora della comparsa dei sapiens, l’uomo era attratto dalla forma di certi oggetti, pietre, ossa o legni che fossero, e se ne serviva in modi che andavano oltre la funzione fisica, investendoli di significati propiziatori, sacri, o anche semplicemente estetici.
Tutto questo, oltre a essere ampiamente documentato nelle opere dentro il castello, che percorrono i vari decenni di lavoro di Orsingher (ma “Arte Sella” è pure un riferimento d’obbligo per capirne la poetica), è qui applicato chiaramente, nelle opere realizzate per questa occasione all’esterno, agli oggetti recuperati nei boschi sconvolti dalla recente bufera.
Per lo più l’artista non si accontenta, come altri fanno, di dare un nuovo contesto a ciò che trova in natura: lavora di suo a trasformarlo.
Lo vediamo ad esempio in quelli che chiama “Sassibridi”, pietre di granito munite di rami-corna. Tuttavia qui incontriamo anche altri esempi, non frequentissimi nella sua produzione, di uso del materiale allo stato puro: e si tratta proprio di sezioni di tronchi spezzati o sradicati che diventato insetti giganti dalle molte zampe, oppure ragni che scalano in formazione le balze di roccia (“Xilopolipedi”).
Fino a questo punto, però, non percepiamo la magnitudine, la specifica e inedita portata dell’evento in questione. E’ in un altro, ben distinguibile gruppo di opere che Orsingher l’affronta: dapprima in quel “Groviglio di fatti” in cui si accavallano, in modo solo apparentemente disordinato, assi di abete e sezioni di tronchi ramificati: evento già prontamente “normalizzato” da chi lo percepisce solo come una occasione economica? Per poi culminare, nella conclusione del percorso, in una sorta di crollo, una cascata di bancali dove si allude in modo esplicito, anche nel titolo “Pandemia bancale”, ad una risposta di rapido e precario sfruttamento produttivo dell’imprevedibile disponibilità di materia prima.
Nonostante l’evidente ironia-critica e gli interrogativi filosofici incisi a caldo sulle tavole finali del percorso, l’autore non sembra incline a far proprie ipotesi apocalittiche, a premere sul registro dell’allarme radicale (limitando, ad esempio, l’uso del simbolo di per sé drammatico della radice divelta quasi solo all’albero-icona della mostra). Piuttosto, tra il primo e il secondo gruppo di opere, è come essere condotti in un brusco passaggio dal sacro al profano: come se l’“homo faber”, che nella consolidata poetica di Giuliano Orsingher è sempre presente quale creatore di un immaginario naturale necessario alla vita, nella società di oggi avesse smarrito questa vocazione non-economica, questo bisogno di una lettura meta-fisica del reale, e sviluppato soprattutto quello di consumatore miope dei beni di natura.