No a una classe per soli bocciati
La sfida di trasformare il modo di apprendere in uno più cooperativo e costruttivo
È impossibile non condividere l’idea di “prendere per mano uno studente che viene da una bocciatura in un’altra scuola per portarlo a ritrovare fiducia ed entusiasmo”. Questa è la sfida che don Milani lanciò da Barbiana nel 1967 con “Lettera ad una professoressa” e che gran parte degli insegnanti italiani raccolsero nelle proprie organizzazioni educative e praticarono in tantissime scuole dove si sperimentarono e si sperimentano soluzioni didattiche creative ed efficaci.
Su di loro, a partire dagli anni ‘60, lasciarono un segno la pedagogia di Dewey, la didattica di Freinet e le teorie sulla psicologia dell’età evolutiva di Piaget e, più recentemente, la nuova scienza della mente che pone l’attenzione ai processi di apprendimento concettuale, la pedagogia istituzionale che tende a rileggere in chiave di contesto relazionale le diverse situazioni formative, il mastery learning dove si parla di “dare il tempo necessario”, di “diversificare le risorse”, e di individualizzare i “rinforzi positivi”.
Ben venga allora una scuola senza banchi, senza pareti, senza rigidi schemi, senza la obsoleta trilogia della lezione, libro di testo, interrogazione. Una scuola dove, invece di informare, si insegna ad apprendere, si forniscono cioè le capacità di riflettere sulle molteplici conoscenze, fornite da infinite fonti di informazione, per organizzarle e renderle funzionali; una scuola dove si assumono come punto di partenza le conoscenze e le rappresentazioni del mondo che lo studente già si è costruito, per porlo in una situazione problematica, dove un fatto venga a contraddire il suo sapere, una situazione facile da padroneggiare, ma per la quale non esista una soluzione a priori; una scuola che in questo modo stimola curiosità, favorisce una prima forma di rielaborazione dell’esperienza attraverso l’espressione spontanea della struttura cognitiva esistente, e promuove infine, attraverso la discussione, una rielaborazione cognitiva, durante la quale i fatti vengono compresi ed accedono al mondo dei significati attraverso la ricerca di un accordo tra tutti i significati possibili; una scuola dove i saperi si costruiscono e si ristrutturano in continuazione a partire dai problemi e dal modo di interpretarli, dove la conoscenza non è univoca e dogmatica, ma cresce, si modifica, si evolve, cambia, e i suoi protagonisti cambiano con lei.
Ben venga un ambiente che valorizzi ogni singola individualità e dove sia possibile una reale cooperazione tra individui che, mantenendo la propria identità, possano crescere e co-evolvere.
Ben venga un insegnante che sia facilitatore del clima sociale e della complessiva attività didattica, che sia in grado di riflettere sulle proprie conoscenze e di tradurre la propria competenza in itinerari espliciti di organizzazione delle proposte didattiche per gli allievi, definendo strumenti, percorsi e attività, in modo flessibile, tale che l’apprendimento possa seguire anche percorsi non preventivati e che ognuno possa raggiungere, nei propri tempi, quelle che sono abilità irrinunciabili.
Ma cosa ha a che fare con tutto questo una classe prima di un liceo cittadino che raccoglie 23 ragazzi che provengono da bocciature in altri licei? Cosa ha a che fare questa classe con l’integrazione, la cooperazione tra diversi, lo scambio culturale ed esperienziale, la crescita dell’individuo? Cosa ha a che fare questo isolamento culturale con la motivazione ad apprendere?
Non possiamo creare isole di contenimento per tutto quello che ci disturba; dobbiamo saperlo accogliere e mettere in atto gli strumenti idonei per farlo interagire con quella che consideriamo la normalità. Questa è la condizione indispensabile per un arricchimento reciproco.
Invito il dirigente e i colleghi del Rosmini a lanciare la vera sfida, a buttare tutte le cattedre, a trasformare ogni locale della scuola in uno spazio vivo e in un laboratorio di idee, a dimenticare la lezione frontale e ad offrire a tutti gli studenti, bocciati o promossi, attenti o distratti, volonterosi o negligenti, un nuovo modo di apprendere, cooperativo e costruttivo.
In fin dei conti è questo che la legge ci chiede da tempo, sostituendo i programmi con le indicazioni e chiedendo di perseguire competenze, ossia il sapere, il saper fare e il saper essere.