Giacomo Sartori, “Mater Amena”
4 sorelle affascinanti e una vita contrastata. Editore Arcipelago Itaca, 2019, pp. 156, euro 15.
Un libro di poesie. Sulla mamma. Mah... Confesso di essermi accostato con scetticismo all’ultimo libro di Giacomo Sartori, “Mater amena”. E di avere iniziato a scorrerlo solo per un filo di amicizia che ci lega, da quando, sedicenne lui, trentenne io, eravamo militanti del gruppo del Manifesto; e per l’apprezzamento dei suoi brevi romanzi, da “Tritolo” a “Rogo” a “Sono Dio”, ironici quando non sferzanti, e spesso inquietanti, eppur veri.
Dunque, questa volta poesie sulla propria madre. Anche no, il mammismo da tempo è fuori corso.
E invece Sartori sorprende e avvince. Ci parla con parole piane, ma in profondità, di sentimenti complessi, talora lievi, talaltra dolenti, più spesso intricati, contorti, stratificati.
Le sue parole semplici eppur chirurgicamente precise, scendono dentro l’animo, a scandagliare la vita e anche la società.
Il libro si apre con poesie sul rimpianto. Tema classico, probabilmente da tutti vissuto, il nostalgico desiderio di fare macchina indietro, e poter esprimere al caro ormai scomparso l’affetto che non si è saputo dare.
“Come facciamo con le sedie\ ci tenevi tanto\ a regalarmele\ poi mancava il tempo\ per andare a sceglierle\ veniva un’altra festa\ avevo altre urgenze... Ridevamo di queste sedie\ che non arrivavano\ né a Natale né mai\ adesso come facciamo\ è il mio compleanno\ il tempo l’avrei\ (scegliere è niente)\ tu però sei morta”
“Perchè non viene?\hai chiesto all’altro figlio\ dopo la seconda operazione\ perché non è ancora\ venuto?\ Ti facevo aspettare\ come sempre”.
Poi il rapporto madre-figlio si rivela più complesso. Una madre anaffettiva, ricorda Giacomo: “Aborrivi i contatti\ tra i corpi”. Rivede ora, analizza nei dettagli vecchie fotografie, da piccolino con la madre: “In una foto\ sulla neve... minuscolo sciatore\ famelico di contatto\ premo la spalla\ sulla tua coscia... cincischio le manopole\ canto o grido\ il mio broncio... per non concedermi\ quello che anelo\ il tuo braccio\ fugge all’indietro”.
“In un altro scatto\ siamo seduti sulla sabbia\ io davanti tu dietro\ incollo la schiena\ alla tua coscia... tu\ la mano sull’anca\ (eviti la mia pelle)\ sulla faccia nell’ombra\ un sorriso lento\ a vestire la noia”
È una somma di rivendicazioni per le affettuosità dalla madre negate, e di rimorsi del figlio per averla ripagata, da adulto, con sistematica disattenzione: “Passavo a trovarti\ fatte le mie cose\ in lungo e in largo\ sbarcavo a notte fatta\ mi accoglievi sul divano... senza farmi pesare\ (o solo capire)\ che avevi atteso\ chissà quante ore\ mentre io rimandavo\ e ancora rimandavo\ (non era prioritario)”.
Certo, ci furono anche i tempi dell’affetto: “Andavamo al cinema\ senza far troppo caso\ al cartellone\ per il gusto del buio\ fitto d’attori\ e emozioni\...compagni di scuola\ fidanzatini”
Ma poi, di fronte alla nuova personalità del figlio ormai adolescente, la madre non la accetta: “A spezzare l’idillio\ cataclisma arcano\ giunse la voce adulta\ una prima amichetta\ un’altra\ quasi mogliettina\ (pedissequa gelosia\ guardando indietro)\ e non parliamo\ dei rivoluzionari\ i grezzi operai\ il prete spretato\ il grecista comunista... mi ripudiasti\ come si congeda\ un domestico\ che ha rubato”.
Personalità molto forte, e molto contraddittoria, quella di Piuma Lange, la madre. Che va inquadrata in una vicenda che per anni terremotò il perbenismo della Trento clerico-fascista, con l’arrivo in città delle quattro sorelle Lange: Ruth, Mica, Lumo, Piuma. Ricche, belle, sportivissime, colte. E libere, molto libere.
Erano nate a Cuba e New York, dove il padre aveva avviato, con il supporto degli Agnelli, fabbriche e investimenti molto redditizi. Lui era morto prematuramente, e moglie e figlie si erano trasferite in Italia e soprattutto a Trento, dove acquistarono immobili di pregio. Erano gli anni a cavallo tra i ‘30 e i ‘40: le splendide ragazze, sciatrici provette, intelligenti (tre su quattro si laurearono, tutte parlavano almeno tre lingue), brillanti, disponibili, divennero l’oggetto del desiderio di tutti i maschi della città e anche da fuori provincia. Si formò una compagnia con i migliori scalatori dell’epoca: insieme andavano a sciare, a conquistare le principali vette dolomitiche, a passare allegre notti nei rifugi e in città. Un noto alpinista (a lui è intitolato un rifugio nel gruppo del Brenta) perse anche la vita: mentre raccoglieva una stella alpina per una delle belle - si scrisse; buttandosi nel vuoto disperato dopo essere stato sedotto e abbandonato, si dice. “Le quattro Lange\ foriere di scandali\ e suicidi d’amore\ nel sopore fascioclericale” - le icastiche parole di Sartori.
Poi i soldi svanirono: la madre (nonna di Giacomo) non era in grado di gestire interessi a cavallo di due continenti, e interessati consulenti trovarono il modo di approfittarsene. Per le quattro ragazze non fu un grande problema, avevano ammiratori a schiere: tre fecero matrimoni brillanti e convenienti, due anche felici, “due tue sorelle\ ben più belle\ (e sposate meglio)”. Piuma, la meno bella, fece un matrimonio modesto, con un capocantiere.
A lei e alla madre capitò, nella spartizione dei beni residui, una splendida villa rinascimentale a Moià di Cognola, acquistata quando i soldi erano tanti. “Accidenti – dissi a Giacomo allora sedicenne quando mi fece entrare in casa – Che palazzo! Vieni da una famiglia di nobili, o altoborghesi” “Sì – rispose con voce piana – ma decaduti”.
Difatti lo stipendio del padre, che pure lavorava tutta la settimana fuori città, e quello della madre, apprezzata professoressa, non bastavano a mantenere una tale dimora, i suoi arredi preziosi, e per di più le residue pretese di gran dama di Piuma. Che si sentiva (solo oggettivamente?) umiliata ogni volta che si ritrovava con le sorelle, che continuavano a condurre una vita ricca e brillante.
Ogni estate andavano al mare in Liguria tutti assieme, Ruth, Mica, Lumo in auto di lusso talora con autista, Piuma con tutta la famiglia (in cinque) stipati in una seicento. Responsabile di questa débacle sociale era indicato il marito: di qui duri litigi, incessanti.
Nelle sue poesie Sartori il problema dei soldi più volte lo accenna, sempre lo sottende: non perché interessasse direttamente lui (del tutto sobrio per personale natura e cultura) ma perché lacerava la madre e ammorbava la convivenza familiare.
Al disprezzo materno verso il padre, Giacomo dedica pochi versi, definitivi: del marito, anche se ormai portato via da un tumore, “dicevi cose orribili\ senz’ombra di pietà\ (il minimo sindacale\ spettante ai morti)\ o solo indulgenza\ sull’uomo bello\ di mezzo secolo\ e tre figli... tuo marito\ mio padre”.
C’è altro che rimprovera, gravemente, alla madre. Le quattro sorelle Lange, maritate, avevano sedimentato l’”impudica insubordinazione” dei primi anni “in eccentrica rispettabilità”. Giacomo disapprova l’”eccentricità” materna: “Eri sempre fuori\ sempre fuori\ di giorno e di notte\ (soprattutto la notte)\ fuori con la pelliccia\ fuori con i rossetti\ ogni sera via\ nella notte buia\ (calze a rete!)\ poi i pomeriggi\ saldata alla cornetta\ sbraitando frasi\ tutti quei nomi\ che chiamavano\ per fissare l’ora\ e fare baldoria”. Se la prende, scrivendo parole forti, urlate, con il rossetto “l’odiato rossetto\ d’eccentrica borghesaccia\ d’acculturata baldracca”.
Sembrerebbero frasi definitive. Una rottura insanabile. Non lo è. Come non lo era stata quando, bambino volteggiante sulla bici nuova, aveva disturbato la madre aggrondata “dai tormenti di quattrini”: in un gesto d’ira lei gli aveva fratturato la mano con un manico di scopa - “all’ospedale vedevo\ un terrore di roditore\ nei tuoi occhi di vetro\ (temevi spifferassi tutto)\ ho detto che ero caduto”.
Complicità familiare, quella del bambino; severità trattenuta, quella dell’adulto.
Il fatto è che Sartori vede nella madre, sotto tutt’altre forme un riflesso di sé stesso: lei gran dama fallita; lui comunista fallito, perfino contiguo alla lotta armata, e scrittore introverso, di non grande successo. E della donna ammira stupefatto qualità profonde e per lui incomprensibili: “Come potevano\ l’incongruenza del pensiero\ la presunzione\ la foia di primeggiare\ la petulanza\ (in sintesi\ lo snobismo)\ dare un cocktail\ così umano\ e così toccante\ come potevi\ farti tanto amare? (tu che amare\ sapevi male)”.
Un grande amore di figlio. Che supera i difetti e le colpe, peraltro lucidamente individuate e crudamente rappresentate. Piuma teme l’acuta penna del figlio, e con acidità cerca di svalutarla: “Questo risotto\ è buonissimo\ se c’è una cosa\ che ti viene bene\ sono i risotti\ dicevi\ ma anche gli arrosti\ dovevi fare il cuoco\ invece di scrivere libri\ che nessuno legge”. Ma poi, in altra occasione, arriva al punto dolente: “Il prossimo romanzo\ parla di noi?\ mi chiedevi\ lavorandoti le nocche\ l’importante è che\ non parli di noi”.
Piuma si sbagliava. Giacomo Sartori ha lettori, che lo apprezzano. E le sue profonde e spesso urticanti letture della vita familiare sono intrise di un affetto vero, grande, che va molto oltre le tante manchevolezze dei singoli.
Questo di Sartori è un libro d’amore. “Poi ricordo\ quando mi scopro stanco\ o le cose smottano\ mi dico che\ (il solito opportunista)\ devo proprio chiamarti\ poi ricordo\ che sei morta”.
È una lettura piena e vera, che sinceramente, consigliamo a tutti.