Teatro al castello
“Shakespeare at the castle”. “Don chisciotte amore mio”. “Il sogno di jacopo”
In estate il teatro lascia i palcoscenici tradizionali per andare ad abitare spazi aperti, inusuali e suggestivi. I castelli – con il loro fascino di storia, architettura e superbe vedute dall’alto – rientrano a pieno titolo in questa categoria. Ho avuto la ventura, tra luglio ed agosto, di assistere a Shakespeare at the castle e Don Chisciotte amore mio al Castello di Pergine e Il sogno di Jacopo al Castello di San Michele di Ossana; i primi due all’interno della rassegna “Tra le mura” organizzata da ariaTeatro, l’ultimo inserito nel variegato calendario in “Omaggio a Jacopo Aconcio”. La singolarità della location non è però l’unico elemento che lega i tre spettacoli. C’è tutta una gamma di affinità tematiche da rilevare: il porsi domande esistenziali, il viaggio come condizione aperta dell’essere, tanto nel Rinascimento quanto nella modernità.
Partiamo da Shakespeare at the castle, co-produzione Itaca Teatro-ariaTeatro. L’ambientazione è particolarmente indovinata, dato che materia è quella dell’Amleto. Marco Alotto – autore, regista e attore dello spettacolo – pesca un po’ dall’originale, un po’ da Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard, mescolandoli assieme. La vicenda eleva al rango di protagonisti gli amici d’infanzia di Amleto, due antieroi che si trovano loro malgrado coinvolti in una trama più grande di loro, in quel Grande Ingranaggio di cui scriveva Jan Kott. Nella strada verso il castello i due incontrano un attore, che attraverso la sua arte conduce loro e il pubblico dentro la tragedia, tenendo in mano i fili dello spettacolo e del destino. Nell’interpretazione di Denis Fontanari e Christian Renzicchi, Rosencrantz e Guildenstern sono due caratteri simili e indefiniti, al punto che le loro identità spesso si confondono; personaggi ritratti nei loro passatempi, comici e tragici al contempo, nel solco dell’umorismo del teatro dell’assurdo. L’attore dipinto da Marco Alotto, per l’istrionismo, la declamazione e gli appassionati scatti romantici, è - volutamente - un grande attore di stampo ottocentesco. Uno Shakespeare in chiave beckettiana, con dialoghi serrati ma pieni di una poesia da cui trasuda l’angoscia dell’essere umano.
Con Don Chisciotte amore mio, coproduzione raumTraum-ariaTeatro, si rimane nel campo dei classici rivisitati. Il testo di Angelo Maria Tronca e? una rilettura contemporanea del mito creato da Cervantes che racconta, attraverso le chiavi del surreale, del comico, dell’epico e del poetico, una storia di eroi fragili senza altro scudo che il proprio coraggio. Una gioiosa eruzione creativa che esalta il senso del viaggio in sé, non finalizzato al raggiungimento di qualcosa ma come pura direzione. Don Chisciotte e Sancho Panza – un po’ attori, un po’ adulti, un po’ bambini – sono catapultati nella modernità, ad affrontare nemici, battaglie, illusioni di oggi. Nella regìa di Giulio Federico Janni i due cavalieri erranti diventano una piccola e scanzonata compagnia girovaga di cialtroni, che alla maniera dei comici dell’arte si esibisce davanti ad una scenografia allestita alla buona, improvvisando, cantando, suonando, ballando, inscenando duelli, usando maschere, animando marionette (i cavalli parlano dei loro padroni e dei propri tormenti). Divertendo, e parecchio, con poesia. Michele Vargiu e Max Meraner (che si segnala per mimica ed espressività) sono degli istrionici Don Chisciotte e Sancho Panza, mentre Letizia Cardines arricchisce il tutto suonando e danzando.
Il sogno di Jacopo, produzione Emit Flesti, nasce invece da una commissione del Comune di Ossana per celebrare i 450 anni dalla morte di Jacopo Aconcio (1520-1567). Quella del filosofo di origine solandra è figura affascinante e straordinariamente attuale. Un uomo che, al tempo di Riforma e Controriforma, è esule senza né patria né chiesa. Un uomo che rifiuta fermamente il dogmatismo cattolico ma nemmeno abbraccia apertamente il protestantesimo, perennemente volto ad un’intima ricerca della verità, attraverso gli strumenti del dialogo e della tolleranza e il cardine del dubbio. Dall’accurato studio di materiale storico è sorta la bella drammaturgia scritta da Alberto Frapporti con la collaborazione di Annalisa Morsella, che, con l’aiuto di Giulio Macrì, si è incaricata della regìa. La realizzazione è fortemente allegorica. Lungo il cammino, Jacopo (Giuseppe Amato), che si fa luce con una lanterna, incontra due personaggi-personificazioni che lo stringono tra due fuochi: Dogma ed Eresia. L’uno (Alessio Dalla Costa), statico e imponente, si insinua con gentilezza subdola per poi inasprirsi nei toni: non può esserci dialettica. L’altra (Annalisa Morsella) invece è affascinante, passionale, tentatrice nel suo rivolgersi al protagonista con domande come: chi sei? Cosa cerchi? Impattante tra l’altro che Eresia venga raffigurata come fuoriuscita da Dogma. La scelta delle musiche è molto intonata: musica sacra polifonica per Dogma, la passionalità profana di Monteverdi per Eresia, l’elettronica per creare un ponte con l’oggi. Intelligente prova registica per Annalisa Morsella, soprattutto visto ch’ella è prima di tutto attrice.
Tre spettacoli, tre immersioni in altrettanti spaccati del Rinascimento inglese, spagnolo e italiano. Con viaggi reali e figurati, esteriori e interiori, materiali e spirituali. Con tematiche pregnanti allora ma anche ai nostri giorni. Con domande esistenziali e universali (chi sei? dove vai? cosa cerchi?) che, in questi tempi caotici, dovremmo avere il coraggio di tornare a porci.