“Il Rinascimento di Marcello Fogolino”
Ordine e bizzarria. Trento, Castello del Buonconsiglio, fino al 5 novembre.
Percorrendo questa mostra che riunisce pressoché tutte le opere trasportabili di Marcello Fogolino e del fratello Matteo, la prima ma persistente impressione è che la sua (la loro) vena migliore sia nelle piccole dimensioni. E che nelle grandi ancone destinate agli altari, per lo più fedeli a modelli convenzionali tardo quattrocenteschi – come fece notare Ezio Chini nei suoi studi sulle opere in territorio trentino –, siano gli inserimenti di paesaggio, i racconti visivi dei secondi piani o delle predelle, il dettaglio di un fiore o di un uccello, l’interesse per i volti, a parlare un linguaggio capace di catturare ancor oggi la sensibilità e l’immaginazione.
Marcello Fogolino fu pittore di corte di Bernardo Cles, impegnato nella decorazione a fresco del suo nuovo “Magno Palazzo”, e poi per un quarto di secolo il pittore più richiesto dai nobili del principato.
Era giunto a Trento nel 1527, in fuga da un bando della Serenissima per aver ucciso un uomo in Friuli, sua terra di origine. Benché la vicenda biografica sia lacunosa, è documentato che insieme al fratello svolse una sistematica attività di spionaggio in favore di Venezia, al fine di ottenere dei salvacondotti per tornare, al bisogno, in patria. Insomma, una condizione che non si conciliava con grandi spazi di autonomia rispetto alle richieste dei committenti.
I suoi esordi a Vicenza, nell’orbita del maestro Bartolomeo Montagna, produssero intorno agli anni 1505-15 alcune cose di brillante inventiva, due in particolare che qui ammiriamo: l’Adorazione dei Magi e San Francesco riceve le stimmate. La prima, vicina al gusto classico dei grandi modelli dell’Italia centrale (Signorelli, Perugino) denota però un tratto personale nel fatto che il tema sacro è largamente sopraffatto dalla animatissima scena del corteo dei Magi, da un gusto per il bucolico e per l’esotico che sono sì componenti tipiche del tardo umanesimo, ma si arricchiscono di una pluralità di racconti disseminati nel paesaggio terso, dai colori vividi e smaltati e con un’aria da tableau vivant che, come dice Giovanni Villa (direttore dei Musei Civici di Vicenza, che coproducono la mostra con il Buonconsiglio) l’avvicina “più ad un presepe napoletano dei secoli successivi che alle coeve ancone venete”.
Qualcosa di simile si può dire del San Francesco, peraltro singolare nel taglio orizzontale, dove il paesaggio pare il vero protagonista dell’immagine, e in cui sentiamo la lezione della grande pittura veneta, a partire da Giovanni Bellini.
I dislivelli di qualità, nel prosieguo del percorso fogoliniano, si fanno sentire, pur sempre entro la duttilità e la sapiente padronanza del mestiere.
Tra la produzione sacra in terra trentina, l’ancona per la chiesa di Povo, qui esposta, ne è un chiaro esempio: la pala rivela un’esecuzione di stampo convenzionale, ma le scene lacustri della predella hanno un’atmosfera e un movimento che indussero Bruno Passamani a parlarne come del punto più alto di “assimilazione della poesia dossesca”. In effetti, Fogolino potè confrontarsi a Trento con gli interventi al castello dei fratelli Dossi e di Girolamo Romanino, gli uni e l’altro portatori di declinazioni inquiete e molto immaginifiche dello spirito dell’epoca, diverse da quelle, più classiche, in cui Fogolino si era formato.
Tuttavia, facendo un passo indietro, vediamo che già le predelle della citata Adorazione dei Magi (di trent’anni precedente l’opera di Povo) erano pregne di una poetica narrativa propria, più intima e sciolta dai vincoli rappresentativi che la committenza poneva sull’immagine principale.
Il cantiere del Magno Palazzo clesiano aveva però finalità rappresentative diverse da quelle sacre, finalità politiche, e ciò aprì al Fogolino (e alla sua fiorente bottega) un campo di intervento col quale non si era misurato prima dell’arrivo a Trento. Tra i vari cicli a soggetto profano affrescati a palazzo (per non dire delle dimore nobiliari sparse sul territorio, ad esempio dei Madruzzo e dei Thun), il ciclo del Torrion da basso è quello che riserva le prove migliori. Se ne occupa, nel catalogo (poderoso aggiornamento degli studi fogoliniani, con saggi di vari studiosi) Michelangelo Lupo, con un’attenta analisi iconografica, dalla quale emerge come il Fogolino, in via diretta o mediata, abbia attinto al repertorio di immagini del mondo romano presente nella ricca biblioteca umanistica raccolta dal Cles. E, se nella serie degli Imperatori romani a cavallo vediamo liberarsi con efficacia una vena inquieta e dinamica, in quella degli Animali fantastici ci si rivela il Fogolino più inventivo. A dire il vero fu lo stesso Cles a chiedergli espressamente: “Nel torion da basso lassereti star de dipingere armi et in loco di esse fareti fare qualche altra fantasia vaga”. Com’era nella sua duttile ed eclettica capacità, Fogolino colse questo stimolo per concedersi qualcosa di originale, non imitato, come altrove, da Pinturicchio o Giulio Romano (palazzo Te di Mantova), fantasie “grottesche” diverse anche da quelle che disseminò nel castello e nelle dimore private fino agli anni quaranta del Cinquecento.