Primarie, rito stanco e inutile
In una domenica da tregenda (mai vista una pioggia così quest’anno, almeno a Trento) si sono svolte le “primarie” del Partito Democratico del Trentino per l’elezione del nuovo segretario provinciale. Risultato scontato: vince Italo Gilmozzi, il candidato della nomenclatura, su Elisabetta Bozzarelli, sfidante che sapeva in partenza di perdere. Tuttavia, come accade nella politica italiana e in quella trentina, le considerazioni su questo voto devono scostarsi dalla logica comprensibile a tutti (conquistare il 61,2% dei voti sembrerebbe una vittoria netta) per seguire le dinamiche politichesi di una classe dirigente avulsa dalla realtà.
Cominciamo dai dati di fatto. In primo luogo la caduta verticale della partecipazione. Ogni scusa è buona per giustificare questa progressiva sfiducia dei cittadini riguardo uno strumento, quello delle primarie, logoro e per certi versi inutile. Un rito stanco che si ripete per inerzia. Se nel collegio di Trento nel 2014 avevano votato 2532 persone e oggi solo 1303, qualcosa vorrà pur dire. La consultazione non aveva senso. Perché andare alle urne se tutto è già stabilito?
Ed ecco il secondo dato: ormai quasi tutti gli elettori del PD stesso hanno capito che, qualsiasi risultato occorra, non cambierà nulla; allora non serve scomodarsi. Anzi, la situazione è ancora peggiore: il sistema delle primarie, che dovrebbe favorire il coinvolgimento della gente, finisce per replicare i peggiori difetti del voto riservato solo agli iscritti, cioè il predominio dei signori delle tessere e delle truppe cammellate. Incredibile il seggio di Pinzolo: 336 votanti, 329 a 7 per Gilmozzi. Pinzolo esprime da solo il 7,5% dei voti validi a livello provinciale! Se tutti avessero votato come in Rendena, in Trentino avrebbero partecipato alle primarie circa 20.000 cittadini!
Gilmozzi vince, ma molto sotto le attese. E soprattutto grazie ai risultati della periferia, soprattutto da quello “bulgaro” ottenuto in Giudicarie (466 voti contro 58 di Bozzarelli; cioè l’89% contro l’11%) dove comanda Gigi Olivieri. Se consideriamo però soltanto i collegi di Rovereto, Trento e Pergine (il cuore del Trentino), il risultato è più equilibrato: 1624 a 1324, il 55% contro il 45%.
Se pensiamo che dietro Gilmozzi si erano schierati praticamente tutti, tranne i consiglieri provinciali Manica, Dorigatti e Plotegher, capiamo che queste percentuali non sono affatto soddisfacenti per lui. Il suo schieramento era infatti sicuro di ottenere almeno i due terzi dei voti. Quindi esce praticamente sconfitto. Ma ciò non conta.
A sostegno dell’assessore comunale di Trento c’era un’ammucchiata senza alcun minimo comun denominatore programmatico, se non un avvilente sostegno incondizionato alle “riforme di Renzi” (perché? Cosa c’entra con la realtà locale?) e qualche trita buona intenzione. Si è arrivati a teorizzare la rinuncia alla politica: “Ora eleggiamo il segretario, poi penseremo al programma” hanno proclamato i big, come se potesse esistere un segretario (e anche un partito) senza un programma. In realtà la compagine è unita soltanto da questa constatazione: “Se continuiamo a litigare al nostro interno rischiamo di perdere le poltrone”. Questo il “patto sindacale” che è riuscito a tenere insieme singoli e cordate tra loro completamente ostili. Così il buon Italo si ritrova segretario, anzi semplice notaio della pacificazione interna.
Senza idee e senza programmi, nel giro di qualche settimana, il partito sarà spaccato come prima e Gilmozzi farà lo spettatore. È stato scelto a tavolino proprio per fare lo spettatore. Bozzarelli lo marcherà stretto ma, con tutta probabilità, anche i solenni proclami per un partito aperto e innovatore resteranno vuoti esercizi retorici.
Non ci aspettiamo nulla, perché il PD vive del nulla. Pardon, vive di tattica, posti di sottogoverno, piccoli o grandi ruoli di potere. Rischiamo di essere dischi rotti, ma non ci stancheremo di ripetere che quando non esistono contenuti concreti su cui discutere (e magari dividersi), un partito diventa esclusivamente un luogo per restare a galla e per spartirsi le poltrone. Le buone intenzioni dei singoli, che pure ci sono, non servono a niente perché la questione è strutturale.
Eppure il PD qualche segno di vita lo dà. Ne è testimonianza il ponderoso documento relativo alla riforma della scuola. Un’analisi seria e ricca di spunti, forse un po’ troppo lunga. Comunque il segno che dentro il partito ci sarebbe pure sostanza progettuale. Tutto però scivola via, perché non si traduce in azione politica, ma in una episodica presenza, annichilita a fronte della priorità vera, che guida ogni atto degli esponenti PD: la conservazione del proprio potere.
L’elezione del nuovo segretario democratico conclude la stagione dei “non” congressi dei partiti della maggioranza provinciale. I partiti ne escono con le ossa più rotte di prima, mentre intorno il malcontento sale. Le lotte interne, conclamate come nel caso del PATT o rimandate come nel caso del PD, evidenziano la debolezza dell’intera compagine del centro sinistra autonomista.