Upt: il tasto autodistruzione
Gli ultimi catastrofici mesi di un personale politico che non vuole fare i conti con 15 anni di dellaismo
Qualcuno nell’Upt ha premuto il tasto dell’autodistruzione. Non è possibile commentare altrimenti gli ultimi catastrofici mesi di un partito che rappresenta la terza forza della coalizione di governo, ha eletto 5 consiglieri provinciali di cui 2 assessori con competenze pesanti e a Roma ha un senatore e un deputato. Non parliamo di un grande numero di iscritti (2800), peraltro lievitato nelle settimane prima del congresso. Ma non ci occupiamo di Upt solo per questo. Proponiamo ai lettori una vicenda surreale che sembra un esempio lampante di come è ridotta la politica trentina, di come i partiti, totalmente avulsi dai problemi concreti e lontani sideralmente dai cittadini, siano preda di lotte tra bande, di personalismi privi di senso. Neppure la “razionalità delle poltrone” e l’istinto di sopravvivenza di chi vive nel Palazzo riescono a spiegare l’accaduto. Proviamo a farlo lo stesso.
Da molti mesi l’Upt era dilaniata da faide interne che vedevano contrapposti la segreteria di Donatella Conzatti (molto attiva sul territorio, desiderosa di un rinnovamento, lontana però dal gruppo consiliare e dai signori delle tessere) e il clan di Dellai che, passato da sconfitta a sconfitta, ininfluente a Roma e in affanno anche qui, per salvare se stesso riciclandosi per l’ennesima volta, lanciava l’idea di un “nuovo soggetto politico”. Alle elezioni amministrative a Trento (e in altri comuni come Dro, patria del fedelissimo scudiero, il sindaco senatore Fravezzi) varava la lista del “cantiere”: un flop che si è cercato di nascondere. L’intento di Dellai era quello di avvicinarsi in tutti i modi al Pd di Renzi, visto che, per garantirsi un seggio parlamentare alle prossime elezioni, occorre venire a patti con l’ex rottamatore. Intanto il grosso del partito, compresi gli assessori Gilmozzi e Mellarini non prendevano posizione nella contesa fra Dellai e Conzatti.
Alla vigilia del congresso Dellai fa una mossa azzardata: si candida alla segreteria confidando nel suo ascendente sui due “colonnelli” compagni di tante battaglie. Ma stavolta non lo seguono. Anzi, proprio Mellarini lo sfida alla segreteria.
Strano il comportamento dell’assessore alla Cultura: lo statuto dell’Upt infatti non consente di diventare segretario a chi ricopre cariche di governo. Nonostante ciò, Mellarini si candida. Tutti sanno che, se vincesse il congresso, mai si dimetterebbe da assessore. Eppure il partito passa settimane in estenuanti assemblee caratterizzate dagli insulti e dalle accuse che i due gruppi si scambiano a mezzo stampa. Mellarini però si rivela ancora una macchina da guerra per quanto riguarda tessere e truppe cammellate, sovrastando un Dellai sempre più nervoso. In questo percorso decisivo è il comportamento degli altri big del partito, da Gilmozzi a tutto il gruppo consiliare di piazza Dante. Tutti contro Dellai. Motivazione? “Siamo stufi, per anni ci ha comandato a bacchetta, adesso basta!”
Motivazioni personali, come si vede, ma fino a un certo punto. Le conduzioni autoritarie, come è stata quella dei 15 anni di Dellai, si reggono fin quando dura il successo; nel momento della sconfitta, anzi delle sconfitte in serie, i rospi buttati giù in anni di sottomissione saltano fuori tutti in un colpo. E il capo non lo si sopporta più. E così al congresso si consuma la rottura con Dellai che, in chiara minoranza, platealmente se ne va sbattendo la porta dopo il suo discorso, senza partecipare ai lavori successivi.
Mellarini si trova così segretario di un partito dimezzato. Segretario? Calma: lo statuto non glielo permette e il proposito di modificarlo ex post consentendo all’assessore di sedere su entrambe le poltrone, è una di quelle forzature tipiche della politica, possibili però quando si è in posizione di forza, non quando hai avversari agguerriti pronti ad impugnare carte bollate.
Di qui l’interrogativo: comemai Mellarinisi è cacciato in questo pasticcio? Come mai gli altri boss l’hanno seguito in un’avventura evidentemente sgangherata?
Forse questo avvitamento - che, come dicevamo, non è coerente nemmeno rispetto agli interessi carrieristici dei protagonisti - si può capire come conseguenza della sparizione della politica. L’Upt (erede della Margherita) è stato il partito responsabile di 15 anni di leadership dellaiana. Riproporlo ancora significa presentare, con coraggio, i conti di quei 15 anni. Invece Dellai non lo fa, troppo vistosi e ormai palesi sono i fallimenti, si limita a stanche riproposizioni di ulteriori contenitori– come se non fossero bastatila Casadei Trentini, il Vivaio, il Cantiere e un’altra mezza dozzina di sigle – con l’unico scopo di approdare - lui, con un po’ di truppe al seguito - nel Pd renziano. Ma nemmeno i suoi colonnelli hanno il coraggio di fare i conti con i propri 15 anni da assessori o boss di valle, e il leader non lo allontanano perché bisogna girare pagina, ma perché… Appunto, perché? Oltre ai (peraltro legittimi) risentimenti non c’è niente. Zero. Qualcuno nel partito vorrebbe innovare, ma è troppo debole. E così, quasi senza accorgersene, si preme il tasto dell’autodistruzione.