Franca, che sentiva le voci
Era un’utente del Centro di salute mentale. Adesso aiuta gli altri.
Franca Bertella è una piccola donna dagli occhi verdazzurri e il sorriso contagioso. Non è un sorriso stereotipato, il suo. Da lei traspare una sincerità quasi brutale ed una serenità di sottofondo che non può non spiazzare. La incontro al Centro di salute mentale di Trento, dove accoglie calorosamente coloro che entrano, siano essi utenti, visitatori, medici, volontari. Franca è una Ufe (Utente familiare esperto), figura nata agli inizi del Duemila nel Dipartimento di salute mentale di Trento da un’idea di Renzo De Stefani, e che valorizza il sapere esperienziale di utenti e familiari al fine di rimuovere il velo di pregiudizi che spesso copre la malattia mentale. Non resisto a porle per prima la domanda più difficile che ci sia...
Chi sei, Franca?
“Sono un Ufe. Ma (ride) non saprei dire chi sono”.
Hai voglia di parlarmi della tua infanzia?
“È stata bella, ma anche brutta, ricordo i miei che litigavano. Però ero brava a scuola e avevo tanti ammiratori. Forse ero una bambina un po’ triste, ma non lo facevo vedere. Scrivevo poesie sui miei genitori, ma una volta che ho visto che potevano leggerle ho strappato tutto”.
Poi sei cresciuta.
“Mio padre è andato via di casa il giorno del mio tredicesimo compleanno, ho sofferto tanto. Per qualche tempo ha continuato a venire a trovarmi, ma aveva una moglie gelosa e quindi dopo un po’ ha smesso. In compenso avevo un’amica che era più di una sorella e la nostra amicizia è andata avanti fino ai 17 anni. È stato un periodo bello, ma quando mi piaceva qualcuno mi vergognavo terribilmente di tutto, non riuscivo a mangiare, non riuscivo ad andare sul tram, e mi vergognavo anche di vergognarmi. Era una cosa terribile che non mi lasciava vivere. A 18 anni ho incontrato un uomo che leggeva la mano e che mi ha detto: ‘Ti salvi sempre per un soffio’. È stato vero”.
Quando hai cominciato a stare male?
“A 18 anni sono anche andata via di casa perché con la mamma avevo un pessimo rapporto. Alle volte prendevo e partivo, senza una meta. Sono entrata in una compagnia di hippy e allora ho cominciato a fumare spinelli, a star fuori a dormire. Ricordo un episodio: mio padre, che mia madre aveva chiamato perché ero rimasta fuori casa a dormire, si arrabbiò a morte: mi lanciò un secchio d’acqua in testa, mi tirò per i capelli e poi se ne andò via. A quel punto mi sono ribellata ancora di più, me ne sono andata di casa e ho piantato la scuola (ero in quarta ragioneria). Quel tale che mi aveva letto la mano, guardandomi negli occhi mi diceva che mi leggeva dentro come in un libro. Siamo andati assieme al Doss Trento e mi ha dato una caramella. Ho sempre pensato che mi avesse dato un acido, perché, appena siamo scesi, lucidamente mi è venuto da pensare che stessi andando fuori di testa. Dopo di che ho cominciato a sentire le voci, a entrare come in un’altra dimensione”.
Cosa ti succedeva?
“Una sera che ero al parco Santa Chiara, mi convinsi che stavo parlando con Madre Natura. Ho baciato la terra, l’ho assaggiata e mi sembrava sapesse di cioccolata. Lì ho pensato: cosa mi sta succedendo?. Alcuni ragazzi che mi hanno vista se ne sono andati ridacchiando”.
Sei mai tornata a casa?
“Sono tornata a casa dopo anni. Mi hanno accolto, poi mi hanno nuovamente cacciata. Andai a vivere in casa di un ragazzo che mi ha ospitata per molto tempo, però alla fine ho dovuto andarmene, ero allo sbando. Dopo di che, non so come, sono nuovamente tornata a casa. Sentivo sempre delle voci, delle persone più diverse...”.
Hai anche viaggiato?
“Il primo viaggio che ho fatto è stato a Firenze, ci sono andata in autostop. Arrivata ad un autogrill, sono scesa. Era notte e avevo paura. Per fortuna ho incontrato una donna e un ragazzo che si sono offerti di darmi un passaggio in macchina e io ho accettato. Il ragazzo a un certo punto, guardandomi nello specchietto, mi ha detto che avevo gli occhi gialli, gli sembrava che avessi l’epatite. Quei due erano medici e mi hanno accompagnato all’ospedale: avevo davvero l’epatite B. Ti ricordi dell’uomo che mi aveva letto la mano dicendomi che mi salvavo sempre per un soffio? Beh, sarei morta se non fossi salita in macchina con loro, forse non avrei passato la notte. Poi ho cominciato a prendere le medicine ed ho conosciuto un ragazzo - anche lui stava male - che mi ha aiutato a finire la scuola e siamo stati insieme cinque anni. Avevo periodi in cui stavo male, e altri in cui stavo bene”.
Quando stavi male sentivi ancora le voci?
“Esatto. E ho tentato più volte il suicidio”.
Per liberarti dalle voci?
“No, non per liberarmene, ma perché sentivo la voce di gente che mi odiava, che mi faceva star male. Però altre volte erano voci positive. Io ero sola, e tutte le volte che tentavo il suicidio erano voci negative. Non è che mi dicessero loro di suicidarmi, ero io che non ne potevo più, anche per la solitudine. Ma questo è stato soprattutto dopo che si è suicidato Diego, il mio ragazzo. Nello stesso anno è morto mio padre per un tumore, è morta mia nonna e dopo Diego si è suicidata anche la mia migliore amica. E per tutto questo - la solitudine, le voci... - ero felice di morire. Così prendevo un sacco di medicine, e andavo in coma”.
Quando è cominciata la tua risalita?
“Mi ricordo che, quando ero in coma, mi sembrava di essere in un corridoio d’ospedale e sentivo che stava per succedere qualcosa di terribile. A un certo punto ho visto una mano che scendeva, che mi tirava su e... mi stavano rianimando. Allora mi sono detta: mai più! Poi ho conosciuto due dottoresse brave e un dottore che ha capito che avevo bisogno di un antidepressivo. Così non ho più tentato il suicidio”.
Com’è nata l’idea di diventare Ufe?
“Sentivo le voci che mi dicevano di smetterla di prendere le medicine, ma io ho continuato a prenderle. Lavoravo come centralinista, poi però mi è successo un episodio che mi ha fatto quasi andare di nuovo fuori di testa: mi ero fissata con l’idea di un complotto familiare ai miei danni: ero convinta che volessero avvelenarmi. Mi sono poi resa conto che era tutta una mia fantasia, una “psicosi paranoide”. Piano piano, mi è venuta voglia di fare l’Ufe. Ci voleva predisposizione, il desiderio di dare una mano agli altri, di utilizzare la mia esperienza per cercare di aiutare delle persone che stavano male”.
Se dovessi spiegare chi è un Ufe e cosa fa, cosa diresti?
“L’Ufe è un utente o un familiare di utenti che ha voglia di mettersi in gioco, di raccontare la propria storia, e che, sulla base della propria esperienza di sofferenza e di solitudine, vuole aiutare le persone che hanno passato le sue stesse cose. Io accolgo le persone, e se vedo qualcuno che ha bisogno di parlare, sto ad ascoltarlo, e provo a risollevargli il morale”.
Senti ancora le voci?
“A volte, quando sono a casa da sola, sono io a cercarle. Ma non mi rispondono più, oppure durano pochissimo. Comunque non mi comandano più e non mi dicono più cose brutte. Ho trovato tanta serenità, soprattutto al Centro di salute mentale. Da quando ho dato un senso alla mia vita non le sento più, e poi... ‘il mio nome è scritto nella mano di Dio’, così mi ha detto una suora. Io ho i miei dubbi, e con Dio sono piuttosto arrabbiata, ma è comunque una cosa bellissima”.
Ti vedo sempre sorridente...
“È nel mio carattere, anche se ho pianto tanto. A volte, con le persone depresse, non so se faccio bene a sorridere, perché potrebbero pensare: ‘Ah, guarda questa che è sempre contenta mentre io sono giù di morale!’. Però, ho trovato tanti amici, sono in un ambiente bello, faccio una cosa che mi piace e quindi sono serena”.
Cosa diresti a qualcuno che soffre e non riesce a trovare uno scopo per vivere?
“Che è solo un periodo. Sei come in un tunnel, in cui non vedi via d’uscita. Ma si può uscirne. È la malattia che ti fa vedere tutto questo, ma in realtà ci sono anche cose belle, che però in quel momento non riesci a vedere”.