Iran e Usa al confronto decisivo?
Mentre l’embargo imposto da Obama strangola l’Iran, il paese è in fermento. Fra posizioni reazionarie del vecchio potere politico e religioso e una società civile che vuole emancipazione e democrazia, germoglia la “primavera iraniana”?
Non si sente molto parlare dell’Iran in questi ultimi tempi, quasi che la questione fosse stata accantonata nell’agenda dei “grandi” della terra. Nella primavera del 2012 si parlava di attacco imminente di Israele ai siti nucleari iraniani, che al più tardi sarebbe stato rimandato all’autunno; e si andava nel frattempo inasprendo - secondo una tecnica di “strangolamento” economico ben collaudata sin dai tempi di Saddam - l’embargo commerciale e finanziario del paese degli ayatollah. Poi, le elezioni americane avevano decretato una pausa: la vittoria del candidato repubblicano, si disse, sarebbe stata interpretata come un via libera all’attacco di Israele; quella di Obama, come un ulteriore colpo di freni. E ora che Obama ha vinto, ci si chiede, che succederà?
Dopo un anno e più di embargo l’Iran è precipitato in una crisi economica e valutaria senza precedenti: in un anno il cambio tra il tuman (la divisa nazionale) e il dollaro è triplicato; come se, per avere un’idea, ci volessero oggi tre euro e mezzo invece di 1,20 per avere un dollaro; l’inflazione galoppa con tassi mensili a due cifre; salari e stipendi non consentono alla gente di arrivare a metà mese sicché il doppio e il triplo lavoro sono la regola. Soprattutto sono stati gravemente danneggiati gli interessi legati all’industria petrolifera, al commercio del bazar, alle fondazioni pubbliche e ai grandi trust industriali controllati direttamente da settori del regime. Due anni fa il paese, con una economia ancora relativamente florida, vide la repressione violenta del movimento dell’Onda verde che aveva inondato le città iraniane della propria protesta contro le poco trasparenti elezioni rivinte dal conservatore Ahmadinejad ai danni dei progressisti Musavi e Karrubi, di lì a poco posti agli arresti domiciliari. Fu chiamata la prima “rivoluzione del twitter”, perché milioni di giovani dimostranti comunicavano con i telefonini via twitter, dopo che Internet era stato bloccato d’autorità dal ministero dell’interno. Secondo molti osservatori, se domani l’Iran fosse davvero vittima di una aggressione americano-israeliana e il regime dovesse crollare, si potrebbe dire che quella dell’Onda Verde era forse l’ultima occasione perduta dagli ayatollah per riformarsi dall’interno, per cambiare la propria sorte. I due candidati e leader dell’opposizione, Musavi e Karrubi, erano tutt’altro che dei rivoluzionari, ambivano a un programma di riconciliazione della repubblica islamica con i diritti civili e alla piena realizzazione della democrazia promessa nella stessa “costituzione islamica” firmata da Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979. Oggi, come si diceva, i due sono ancora agli arresti domiciliari, e anche alcuni alti prelati del regime teocratico, come ad esempio il progressista ex-presidente Khatami e il liberale pure ex-presidente Rafsanjani, sono stati messi nelle condizioni di non nuocere (i figli di quest’ultimo sono stati incarcerati).
Eppure, tutto lascia credere che la strategia di strangolamento tramite embargo messa in atto da Obama stia per sortire effetti inattesi. Il paese è ormai economicamente alle corde e non è un caso che l’opposizione parli da tempo di trattative segrete in corso tra il regime e gli americani che sarebbero, secondo alcuni, l’ultimo round concesso da Obama prima di cedere ai falchi e dare il via all’opzione militare. Ma l’Iran non è l’Irak di Saddam, un certo pragmatismo e una innata attitudine a trattare con abilità ha da sempre informato la sua leadership che di certo farà di tutto per evitare il conflitto e la prospettiva di fare la fine di Saddam. Non è un caso che, proprio in queste ultime settimane, si sia assistito a uno sviluppo interessante: l’opposizione, che sembrava sparita dopo la repressione brutale dell’Onda Verde, ha rialzato la testa e, per bocca di sei tra i suoi esponenti più moderati di ispirazione religiosa e nazionalista, ha inviato una pubblica lettera-manifesto alla Guida Suprema, l’ayatollah Alì Khamenei, resa nota attraverso vari siti Internet. Diremo subito che questa lettera - ultima di una serie di appelli rimasti inascoltati - è forse importante, più che per i contenuti in sé, per il solo fatto che ci sia, perché mostra che l’opposizione continua a credere nonostante tutto alla capacità di auto-riforma in senso democratico del sistema. Le richieste sono in parte scontate: liberazione dei leader dell’opposizione e di altri detenuti per ragioni politiche, ripristino della piena libertà di espressione e di organizzazione politica in un paese in cui vige da tempo un regime di “libertà dimezzate”: la stampa in teoria sarebbe libera, ma c’è una commissione che stabilisce quale giornale può aprire e quale deve chiudere (magari per riaprire, come spesso accade, il giorno dopo con una nuova testata); la partecipazione alle elezioni è pure libera, ma c’è una commissione per l’approvazione che stabilisce quali candidati hanno i requisiti morali per poter parteciparvi; l’arco dei partiti ammessi all’agone politico viene limitato d’autorità con argomenti pretestuosi e via dicendo. Tuttavia la richiesta più sorprendente è un’altra: la lettera-manifesto chiede al regime di sospendere subito le attuali segrete “trattative diseguali”: in questa situazione di estrema debolezza, si sostiene, l’Iran potrebbe solo cedere alla “prepotenza” degli americani; oppure, si paventa, questi colloqui sarebbero l’ultima foglia di fico prima di palesare quella che è una decisione già presa dagli USA e dai suoi alleati. Si chiede perciò al regime di rimandare i colloqui con gli americani a dopo le prossime elezioni presidenziali di maggio - da cui si auspica l’emergere in Iran di una nuova leadership, più aperta ai temi dei diritti civili (e, ma questo è solo sottinteso, meno screditata come partner in una trattativa seria e tanto difficile); e nel frattempo si chiede al governo - ecco l’altro punto importante della lettera - di decretare la sospensione immediata dell’arricchimento dell’uranio come prova di buona volontà da offrire agli americani.
Gli autori della lettera-manifesto dell’opposizione si presentano come persone spinte da senso di responsabilità di fronte ai gravissimi pericoli che corre il paese e si rivolgono al governo legittimo del paese. Ecco il punto: l’opposizione moderata, mettendo da parte ogni spirito polemico, manifesta un ulteriore atto di fiducia nel capo dello stato, l’ayatollah Alì Khamenei, implicitamente accreditandolo come persona capace di dare una svolta a una situazione che, sotto molti aspetti, si presenta come un cul de sac da cui è difficilissimo per l’Iran uscire senza danni.
Che dire? Se l’Onda Verde è stata una grande occasione perduta dall’Iran, questo ennesimo appello contenuto nella lettera-manifesto testimonia che forse non era l’ultima. All’interno del paese, da una opposizione che è stata in tutti i modi repressa e tenuta a bada - ma che non ha mai cessato di far sentire la sua voce, capace tuttora di mettere in crisi le coscienze più critiche interne al regime - ancora una volta si leva una speranza e un progetto alternativo. Se davvero il regime accettasse il programma espresso nella lettera-manifesto, anche soltanto nella parte che concerne la sospensione dell’arricchimento dell’uranio, si potrebbe dire che saremmo davvero all’inizio di una svolta. I falchi repubblicani in America da un lato, Netaniahu e amici guerrafondai dall’altra, ne avrebbero le unghie spuntate. Specialmente se, a questo difficile ma necessario passo, ne seguissero altri nel senso della democratizzazione delle strutture politiche di un grande paese, profondamente moderno nella sua società (si pensi che il farsi è oggi la quarta o quinta lingua più diffusa sul web, che le donne sono la maggioranza nelle università e in molte professioni, che i tecnocrati, i medici e gli ingegneri iraniani si sono formati nelle migliori università europee e americane), ma ancora troppo frenato da una gerontocrazia religiosa nostalgica dei miti della Rivoluzione e attaccata ai suoi privilegi.
L’Iran di oggi molto si aspetta dall’esito delle prossime elezioni presidenziali: l’attuale presidente Ahmadinejad, inviso a molti settori dell’establishment religioso, è già al secondo mandato e non può più ripresentarsi; e ci sono voci che all’interno del regime si stia già preparando la strada per una candidatura più presentabile sia in chiave internazionale, sia rispetto alle esigenze di riavviare un processo interno di conciliazione nazionale. In questa situazione, segnata dalla percezione che ormai accomuna tutti - il regime e l’opposizione - di un grave e imminente pericolo nazionale, anche figure prestigiose come quella dell’ex-presidente Khatami - sempre critico ma mai in rotta aperta con il regime - potrebbero ritornare in gioco. Davvero l’Iran potrebbe riservarci delle sorprese nei prossimi mesi e forse, chissà, una “primavera iraniana” potrebbe finalmente coronare i sogni di quell’Onda Verde che, pur repressa, è servita secondo molti osservatori da modello ai più fortunati movimenti della recente primavera araba.