Dai tempi di Brera ad oggi
Mi ricordo bene l’accademia di Belle Arti di Brera negli anni ‘60: un austero palazzone nel cuore di un quartiere centrale che conservava intatte le caratteristiche di una vivibilità cittadina che tendeva, altrove, a essere inevitabilmente perduta. Ci sono arrivato nel 1962 disorientato provinciale, diplomato fresco all’Istituto d’arte; come un seminarista alla festa dei bordelli. Il grande palazzo mi inghiottì con l’austerità e la soggezione che la sua fama imponeva, ma anche con la tranquillità e la serenità di qualcosa che stranamente mi sembrò famigliare e che mi fece sentire subito a mio agio.
Presi alloggio in una pensione di via Solferino (quella del Corriere della sera) al n° 4, a cento metri dal palazzo dell’Accademia. Tra il portone di casa e quello dell’Accademia si passava davanti al famigerato bar "Giamaica"; lì ero quasi di casa e sul pittoresco mondo dei suoi clienti e su "mamma Lina" che serviva tramezzini dietro il banco si potrebbe scrivere un libro.
Quando mi iscrissi ai corsi di scultura di Marino Marini le altre cattedre erano occupate da personalità dell’arte come Francesco Messina, burbero e ombroso, sempre schivo nel suo enorme atelier e Luciano Minguzzi, furbo e suscettibile, che ebbi modo di frequentare proprio negli anni in cui si accingeva all’esecuzione della porta del duomo di Milano. Per la pittura. Domenico Cantatore: lo ricordo andare e venire dalle lezioni piccolo di statura e sempre elegante come un direttore di banca. Poi Pompeo Borra, che ti guardava sempre con la testa storta. La cattedra di decorazione era di Gianfilippo Usellini, un tipo straordinario, capace di mangiate terrificanti; indossava sempre un cappotto dì loden e un grande cappello, e in bocca un sigaro Avana; ebbi l’onore di averlo al mio matrimonio celebrato qualche anno più tardi a Castel Toblino. Altre cattedre prestigiose erano quelle di incisione di Luciano De Vita, quella di anatomia del prof. Biagi e soprattutto la cattedra di storia dell’arte del prof. Guido Ballo. Conservo di queste lezioni un ricordo vivo e pungente; la storia dell’arte con lui divenne per molti di noi un contributo indispensabile alla nostra ricerca. Insomma, figure e nomi importanti che davano ragione alla fama che Brera godeva in tutto il mondo.
Di questa importanza si sentiva la presenza ovunque: nell’austera facciata del palazzo, lungo i fianchi alti e lisci delle stradine laterali, nel suo ampio cortile e lungo tutto il colonnato interno, con la poderosa statua del Napoleone del Canova ritta sul suo piedistallo nel bel mezzo del cortile, crocevia di infiniti incontri e appuntamenti tra una umanità cosmopolita di studenti e non. E l’importanza dell’Accademia veniva anche dal fascino dei suoi immensi, neri corridoi. Straordinariamente alti e bui come una perenne notte, rappresentavano il cuore del palazzo, erano il percorso obbligato per l’accesso alle varie aule: lì si consumavano incontri furtivi e imprevedibili; dai "maestri" sempre avari di confidenze alle ragazze che avresti magari voluto avvicinare ma che, altrettanto avare, si negavano quasi sempre! I gessi, quelli no, li ritrovavi sempre: impavidi nelle loro nicchie ai lati dei corridoi, ormai anneriti dagli anni e dallo smog che d’inverno penetrava cocciuto anche negli anfratti più nascosti.
Alle otto di sera, quando lasciavi l’Accademia, essi erano gli ultimi a lanciarti i loro sguardi severi come per ricordarti che la fatica fatta era ben spesa e che malgrado il buio nel quale stavano essi rappresentavano la fonte di una luce assai viva, la gioia del sapere e la certezza che la fatica è la giusta ricompensa per una giornata ben spesa. Nel buio di quel crocevia si affacciavano le maestose porte delle aule: ognuno di noi, a seconda della propria scelta, aveva là la propria casa anche se per alcuni la casa era un po’ in tutte le porte. Casa mia era la porta dell’aula di scultura di Marino Marini, bocca di un enorme stanzone dentro al quale ribolliva una attività incredibile: cavalletti, armature per le statue, gesso e creta da tutte le parti, disegni e oggetti di ogni tipo, come il brulicare di un mercato di città. In quell’apparente disordine ognuno costruiva la propria "postazione" come un’isola, in modo che ad ogni occasione si poteva "visitare" il posto del vicino scambiando confronti e opinioni, mescolando il tutto in un clima di vivacità, sempre pronti a darci una mano.
Marini arrivava ogni mattina e si sedeva nella grande cattedra vicino alla porta; lì riceveva tutti, anche gente che veniva da fuori appositamente per vederlo. Terminato il giro tra noi allievi, se ne andava verso casa e quello era il momento più bello perché spesso io e Cavaliere (suo assistente) avevamo il privilegio di accompagnarlo per una breve ma sempre intensa passeggiata.
La vita di Accademia era in quegli anni un miscuglio di impegno intellettuale, di frenesia del fare e una pazza voglia di mescolarsi, di scambiare provocazioni e stimoli, onde nutrire la nostra insaziabile curiosità. Ricordo che il primo anno del corso di scultura eravamo in 104, molti dei quali provenienti da tutti i paesi del mondo: americani, giapponesi, tedeschi, polacchi,perfino un australiano,un bravissimo artista del quale ebbi il privilegio di essere amico e il cui crudele destino lo vide morire in Giappone pochi anni dopo, alle soglie della celebrità.
Milano era una città inebriante. Spesso, finita la giornata in Accademia e consumata in fretta una frugale cena, mi trovavo a camminare per ore lungo le magiche vie del centro fino a perdermi poi nelle strette viuzze di quartieri semi-sconosciuti. La notte milanese era intensa e accattivante, ma non ricordo mai segni di paura o violenza gratuita. Perfino le prostitute nelle strade, a quei tempi, avevano una presenza famigliare e quasi gentile. La città in quegli anni ostentava la sua malavita con dignità e pudore. Tuttavia il centro, il cuore caldo di quella bella città restava per noi l’Accademia, fonte inesauribile della nostra ragione di vivere.
La gratitudine e la coscienza di dover molto per tutto questo mi ritorna oggi come una ossessione: maggiori sono oggi le occasioni di confronto con la contemporaneità e sempre più mi sento di ringraziare il mio destino che mi ha concesso l’opportunità di crescere con una formazione "diversa", anche se questo significa inevitabilmente trovarsi estraneo alle condizioni di questa attualità. La difficoltà dell’emarginazione si impara a considerarla come un normale contributo alla tua propria chiarezza e quindi le va dato il giusto peso. Bisogna lavorare senza pensare che questo ostacolo possa avere in alcun modo riconoscimenti di sorta. La consapevolezza di una formazione diversa dai percorsi oggi omologati dalla contemporaneità porta inevitabilmente alla solitudine. Anche la certezza che il frutto delle tue esperienze possa generare il peso dell’emarginazione porta al contempo il conforto di capirne la giustezza e l’importanza per il tuo fabbisogno culturale.
Il nostro è un tempo ingordo e cannibale che divora tempo, ragione e voglia senza alcuna pietà e la stupidità vive della mediocrità; non essere partecipi di tutto questo deve essere motivo di orgoglio e non di rimpianti. Uno sguardo anche superficiale all’arte contemporanea (quella omologata, di successo) ci chiarisce ben presto la qualità del suo valore culturale. Tutto si sacrifica per un attimo di celebrità: un briciolo di visibilità vale qualsiasi compromesso e in nome della celebrità si è disposti a soprassedere alla più elementare coerenza di comportamenti e di pensiero! Quando tutto è parvenza, la capacità critica scompare e il mondo dell’arte si popola di personalità deboli per le quali la mediocrità diventa il salvacondotto alla loro carriera Un tempo si dava valore al tempo come strumento per guidare la fatica; ora lo si è stravolto annientandolo per non avere alibi alla mediocrità
Mauro De Carli, scultore