Città brutta e responsabilità intellettuale
L’articolo di Ettore Paris (Le norme e le chiacchiere) sul dibattito organizzato da CasaCittà attorno al tema della collina, si conclude con questa affermazione: "Se le nostre città si imbruttiscono, è anche perché abbiamo un ceto intellettuale di tal genere".
Non c’è dubbio: gli intellettuali (non gli "speculatori") sono i principali responsabili della bruttezza della città. Qui come altrove. Lo dico senza la minima ironia. Tuttavia, a ben vedere, ci sarebbe anche una parte di responsabilità più generale: ogni società ha gli intellettuali (e quindi la città) che si merita.
Non credo – e me ne rammarico – di avere avuto un ruolo apprezzabile nello sviluppo urbano della mia città: in tal caso sarebbe stata molto diversa. Tuttavia, da quando ho iniziato ad occuparmene, prima con l’In/arch e poi con Italia Nostra, il mio principale obiettivo è stato cercare (inutilmente, temo) di rimuovere le cause ideologiche della bruttezza della città, che derivano da una serie di errori concettuali originati all’inizio del ‘900 e diventati opinione comune nel corso del secolo. In questo, le responsabilità degli intellettuali sono enormi: essersi grossolanamente sbagliati ed essere rimasti tenacemente abbarbicati ai propri errori, nonostante la loro evidenza. Il muro di Berlino è caduto, la Carta d’Atene è ancora lì.
Cavarsela scaricando le proprie responsabilità sugli appetiti dei costruttori (che ci sono sempre stati), sulle debolezze dei politici (che ci sono sempre state) o sulla violazione delle norme (che una volta non c’erano nemmeno) è molto comodo. Ma è anche intellettualmente disonesto, perché le cose non stanno affatto così. Non è da qui che derivano la bruttezza, le disfunzioni, la povertà sociale, l’insostenibilità economica ed ecologica tipiche della città moderna e del suo suburbio. Esse derivano principalmente dalla disarmante insipienza del suo progetto. Che però nessuno ha il coraggio di contestare, mettendone in discussione la struttura ed i principi: lo zoning, gli standard, l’edificazione isolata e – soprattutto - il "tanto meno, tanto meglio". Ci ha provato la decima Biennale d’architettura di Venezia, sotto la direzione di un intellettuale serio e responsabile (Richard Burdett), ma il messaggio è stato accolto dall’indifferenza generale e in particolare da quella degli intellettuali italiani.
Avanti così. Continuiamo a criticare, giustamente, le brutte periferie (a Trento interamente pianificate e normate - anche in collina - secondo i criteri prodotti dagli intellettuali del secolo scorso); a lodare i centri storici (frutto della speculazione più sregolata, ma espressa nelle forme esemplari di una saggezza urbanistica collettiva); e a pensare incoerentemente che servano norme più restrittive e indici più ridotti. La "modica quantità" non è una soluzione. Se non è opportuno costruire, meglio non costruire nulla. Se lo è, non si sprechi territorio e non lo si deturpi disseminandolo di aborti semiurbani o suburbani.
Per quanto riguarda la collina di Trento, la mia opinione è questa:
- che l’espansione collinare vada definitivamente fermata;
- che nel territorio collinare già urbanizzato vadano realizzati solo interventi puntuali e localizzati: potenziamenti infrastrutturali, correzioni morfologiche e – dove opportuno – pochissime ma robuste iniezioni di "urbanità".
Com’è facile comprendere, gli ultimi due obiettivi richiedono, necessariamente ed opportunamente, un incremento di densità. Non è quindi per snobismo o per condiscendenza verso il capitale immobiliare se ritengo che la "modica quantità edilizia" sia sempre o troppa o troppo poca.