Vincere
Le ossessioni di Bellocchio
Perché questo titolo, “Vincere”? Chi vince, cosa si vince? Dal balcone di piazza Venezia, Benito Mussolini dichiara di voler vincere la sua oscena guerra. Mentre, prima a fianco a lui e poi, forzatamente, da lontano, una donna combatte per tutta la vita una sua battaglia personale. La donna si chiama Ida Dalser, trentina di Sopramonte. Durante il periodo vissuto dal futuro duce a Trento ha avuto con lui una relazione d’amore, da cui è nato un figlio. Ida combatte perché Benito, diventato presto tanto potente, riconosca non solo di aver concepito un figlio con lei, ma anche di amarla: a Ida non basta ottenere giustizia, pretende testardamente di avere indietro anche il cuore di un uomo che, così la storia ha deciso, non potrà più ricambiarla. La sua è una battaglia senza speranza, senza possibilità di vittoria, che la porterà all’annichilimento, al manicomio, alla morte. La vicenda raccontata dal film di Marco Bellocchio ci costringe a stare attanagliati al destino di quella donna. Siamo inevitabilmente dalla sua parte e allo stesso tempo, inevitabilmente, dobbiamo riconoscere la stupidità di molti, troppi suoi gesti.
La scena in cui la donna si innamora, forse già per sempre, del duce mostra un Mussolini ancora socialista che provoca la platea di una conferenza con una dimostrazione dell’inesistenza di Dio. Ida Dalser è tra il pubblico. Il banale marchingegno retorico di Mussolini non dimostra in effetti niente, ma per Ida è una rivelazione: la prova dell’inesistenza di Dio sembra svelarle la presenza, proprio lì, di fronte a lei, di un suo audace sostituto terreno.
La sequenza si svolge in un ambiente fotografato in modo straordinario da Daniele Ciprì. Nella sala della conferenza, grigio-nera, la luce entra attraverso dei tagli pieni di polvere. Il sole rende percepibile una materia invisibile, aggiungendo strati di significato alla discussione metafisica.
Dio, benché provocato, non trova il tempo di fulminare l’agnostico. Ma non ha nemmeno il tempo, successivamente, di esaudire le preghiere della madre dolorosa. Ma allora a cosa serve questo Dio indifferente?
Sembra chiederselo anche un Mussolini che ritroviamo ferito durante la prima guerra mondiale, costretto in un sanatorio, sdraiato in un letto. Su uno schermo posto sul soffitto proiettano la passione di Cristo (il film è “Christus” di Giulio Antamoro). È una scena straordinaria. Nel volto di Mussolini leggiamo uno sguardo che è in gran parte d’odio, l’odio di un malato costretto dall’istituzione totale a specchiare la sua immagine in quella di Cristo. Allo stesso tempo, però, in un angolo dello sguardo troviamo anche un’ammissione: in quella figura ci si può alla fine dei conti davvero specchiare. O, forse, si deve farlo, se si nutre l’ambizione di guidare l’Italia. Mussolini sa guardare lontano, sa immaginarsi un futuro per costruirselo addosso.
Nel film di Bellocchio Dio torna infatti ancora, nella veste di un suo rappresentante, il papa, per la firma dei patti lateranensi. La risposta alla domanda “a cosa serve un Dio così?” Benito Mussolini sembra dunque averla trovata: serve per essere sfruttato come strumento di potere.
Marco Bellocchio riesce ad abbinare in modo perfettamente fluido il racconto di una storia importante, che aspettava di essere raccolta, con alcune delle ossessioni autoriali del suo cinema più recente (“Il regista di matrimoni”, “Buongiorno, notte”, “L’ora di religione”): la presenza della religione nella società italiana, le inflessioni oniriche della realtà, la dispersa fascinazione per il mondo dell’immagine, il rapporto tra la storia e la sua rappresentazione.