Il mostro che cambia
Impressioni dalla XXIX edizione di “Drodesera”
Anche quest’anno siamo stati a Dro. Senza tema di incomprensione, si può ormai dire soltano “Dro”, pronunciando solo il nome del paese del basso Sarca, da 29 anni legato a doppio filo con il festival che da qualche anno prende vita nelle sale e negli spazi della centrale di Fies. Un appuntamento fisso anche per QT e per il nostro direttore: andare a Dro voleva anche dire trovarlo in platea, o seduto a uno dei tavolini del giardino che affiancano la vecchia fabbrica di energia idroelettrica. Quest’anno Ettore non c’era - in vacanza, e a buon titolo -, e allora abbiamo provato a sostituirlo per restituire ai nostri lettori almeno un po’ delle impressioni e delle atmosfere che abbiamo raccolto in questa ventinovesima edizione di Drodesera.
A qualche mese dal grandissimo regalo ricevuto con il Premio Ubu, il massimo riconoscimento in campo teatrale in Italia, vedere gli spettacoli e le performance ospitati a Dro ha significato mettersi in una situazione pericolosa. Difficile criticare, mettere in luce le ombre, le crepe, i tic di un festival che da anni si è costruito e conquistato una reputazione di prim’ordine nel panorama del teatro contemporaneo italiano, e da quest’anno con la “laurea” in tasca del Premio Ubu. Chi va a Dro sa già cosa aspettarsi: non tanto nel dettaglio degli spettacoli e delle compagnie ospitate, quanto nella cifra, nel sentire e nel linguaggio teatrale parlato e quindi - si spera - compreso dal pubblico. Virgilio Sieni, Abbondanza e Bertoni, Societas Raffaello Sanzio sono i nomi che tutti si aspettano di vedere in cartellone nella decina di giorni di festival. I soliti, si dirà. Dobbiamo ammettere che ci siamo cascati anche noi, nella trappola di voler vedere quasi un’auto-referenzialità di compagnie e nomi ormai “di casa” tra le mura della centrale di Fies. Siamo infatti andati a Dro per vedere se davvero si muoveva qualcosa, se qualcosa bolliva in pentola, o se invece no, è sempre la solita, certa liturgia del teatro di performance e di sperimentazione che dice di ricercare ma in realtà marcia sul posto.
In effetti, le sorprese migliori e più gradite sono arrivate dalla nidiata di nuovi talenti che la Fies Factory sta crescendo con una cura e un’attenzione unici nel panorama artistico italiano: è il progetto che farà diventare grande il ventinovenne festival, con le giovani compagnie che camminano sulle spalle dei giganti venuti prima di loro e che hanno le chance di crescere e sviluppare il proprio lavoro in centrale. A loro è stato dato il compito di sparigliare le carte di Drodesera, a loro la possibilità di indicare e battere un nuovo percorso artistico, a loro la responsabilità di costruire il festival che verrà. Scommessa vinta: parliamo soprattutto di compagnie come Gruppo Nanou, Teatro Sotterraneo, Santasangre. Dei primi si sentirà parlare ancora a lungo, visto che il loro “Motel”, presentato in Sala Turbina 2, è solo alla “prima stanza”, al primo movimento di un quadro che si completerà nei prossimi anni, con un lungo e paziente lavoro di affinamento. Un lavoro di grande umiltà e al tempo stesso di enorme scandaglio emozionale ed esistenziale, senza concedere nulla alla sensazione o all’estetizzante. Cosa che si è vista spesso in altre compagnie che cercano il numero da fuoriclasse, l’irriducibilità a qualunque altra cosa vista in precedenza, per trovarsi in mano poco più che una suggestione. È il caso di Dewey Dell, ad esempio, e, ci spiace dirlo, di Pathosformel.
Discorso a parte merita l’islandese Erna Omarsdottir, con il suo perturbante e dionisiaco “Teach us to outgrow our madness”, spettacolo spiazzante per le sue trovate contraddittorie, sublimi e orride assieme. Un’ora e mezza di violenza pura, che lascia sconvolti. E questo, in fondo, è ciò che si chiede a Drodesera: vedere il mostro in scena che si trasforma, vedere il dio del teatro, Dioniso, che muta e lascia sconvolti, senza concessioni, senza orpelli, senza indugi.