Musica mafiosa
Grande successo, nel nord Europa, per alcuni cd con i canti della ‘ndrangheta calabrese. Da “Una Città”, mensile di Forlì.
Il primo cd di canti di ’ndrangheta, intitolato “Il canto di malavita”, è uscito nel 2000 in Germania, Svizzera e Austria. A questo hanno fatto seguito “Omertà, onuri e sangu”, nel 2002, e “Le canzoni dell’onorata società”, nel 2005. Probabilmente in Calabria non ci saremmo resi conto della pubblicazione di questi dischi all’estero se le grandi testate straniere - dal Times al New York Times, da Der Spiegel a Le Monde - non avessero dato risalto all’avvenimento. Eravamo però al corrente dell’esistenza e della commercializzazione di queste cassette da almeno vent’anni, ma in Calabria nessuno aveva mai dato importanza al fenomeno. Ciò si deve al fatto che questi canti rappresentano un genere di musica marginale che non gode di buona reputazione, non solo per i valori che veicola, ma anche perché si tratta di pessima musica, realizzata con mezzi tecnici artigianali.
Eppure, ad esempio in Germania, il fenomeno ha avuto un successo enorme e ci sono stati concerti e tournée con la vendita di migliaia di copie. Di conseguenza il cd è uscito anche in altri paesi europei e negli Stati Uniti, tanto che dal primo disco si è passati al secondo e poi al terzo.
A mio avviso questo successo non è stato determinato tanto dal fenomeno musicale in sé, quanto dal caso che i giornalisti stranieri hanno creato attorno al fenomeno stesso. Essi hanno presentato l’uscita dei cd come se, in qualche modo, fossero stati loro ad aver scoperto per primi un fenomeno musicale che veniva mantenuto nascosto perché i canti rappresentavano una sorta di inno ad una setta segreta di criminali. Qualcuno ha scritto addirittura che esiste un articolo della Costituzione italiana, il 21, che proibisce questi canti perché andrebbero contro il buoncostume. Hanno dichiarato che le cassette venivano vendute in maniera clandestina, quando tutte quante hanno il bollino della Siae, i cantanti sono registrati… Non si tratta di un fenomeno underground; non c’è mai stata alcuna censura nei confronti di questa musica; nessuno ha mai preso in considerazione le cassette da bancarella, nessuno ha mai attribuito loro un valore sociale, di massa, nessuno ha mai creduto che potessero rappresentare un pericolo. Tra l’altro, più di un giornalista straniero ha definito questi canti come la musica dei ribelli, presentando quindi la mafia calabrese come un fenomeno di ribellione sociale. L’origine della mafia, secondo questa interpretazione, andrebbe ricercata nel desiderio di autodeterminazione del popolo calabrese che nel corso della storia si è opposto alle varie occupazioni.
L’immagine della Calabria e dei calabresi che risulta è terribile: tutti mafiosi, tutti conniventi, un popolo chiuso e diffidente nei confronti degli stranieri. L’Aspromonte è stato dipinto come una terra di latitanti. Alcuni giornalisti hanno invitato i propri lettori a non andarci, altri si sono spinti sino al punto di realizzare interviste a dei ricercati che si vantavano di aver fatto carriera nell’onorata società grazie al consistente numero di omicidi commessi. L’immagine stereotipata del calabrese rozzo e crudele ha avuto successo anche perché conferma dei pregiudizi che esistono pure in Italia e che hanno un chiaro valore difensivo: identificare qualcuno come rozzo, violento o selvaggio significa automaticamente differenziarsi da lui, mettendo al sicuro la propria cultura, la propria società, la propria individualità da possibili contaminazioni con tutto ciò che si riversa addosso all’altro.
Allo stesso tempo non si può attribuire tutta la responsabilità di ciò che è successo all’estero ai giornalisti, che si sono fidati dei propri informatori: l’immagine che è stata diffusa all’estero rispecchia quella che anche molti calabresi hanno della Calabria. Gli stessi cantanti non hanno avuto alcun problema a dichiarare davanti alle telecamere delle tv straniere che la mafia è bella, riferendosi con ciò non alla criminalità organizzata di oggi, ma ad una vecchia mafia che probabilmente non è mai esistita in questi termini.
I canti di ‘ndrangheta sono una sorta di vademecum, un elenco di comandamenti, una guida su come si entra e ci si comporta nella ‘ndrangheta: quali sono i valori dell’uomo d’onore, cosa sono l’onore e l’omertà, perché è necessaria la vendetta… In questo senso i proverbi, i modi di dire e le canzoni fanno parte di una sorta di corpus giuridico parallelo a quello dello Stato, un corpus caratterizzato da una rigidità che emerge in modo chiaro nei canti, negando ogni possibilità ad un ritorno sui propri passi: affiliarsi all’organizzazione comporta una sorta di nuova nascita e significa entrare in un mondo parallelo, separato.
I canti esprimono fedelmente questa mentalità mafiosa e, in qualche modo, anche l’immaginario collettivo che le persone hanno della mafia. Nei canti, ad esempio, emerge il senso di appartenenza all’organizzazione, intesa come completamente separata dal resto della società. Solamente coloro che ne fanno parte possono essere considerati uomini. Chi non fa parte dell’organizzazione non è una persona, e quindi può essere ucciso. La vita degli altri non vale niente e di conseguenza, nei loro confronti, i canti sono ricchissimi di minacce e insulti. Emerge un mondo alla rovescia in cui gli onesti sono coloro che rispettano le regole dell’organizzazione - quindi l’omertà, il rispetto, l’onore e la capacità di farsi vendetta - e la vera criminalità è quella di chi vive nel nostro mondo di persone normali che riconoscono l’autorità dello Stato e dunque sono incapaci di farsi giustizia da sé.
I giornalisti stranieri si sono prestati in maniera eccezionale a questo gioco avvalorando l’auto-rappresentazione della ’ndrangheta, il modo, cioè, in cui gli uomini dell’organizzazione si presentano alla gente. Questa auto-rappresentazione, però, non è solamente un modo per giustificare la propria esistenza, è anche un mezzo per ottenere consenso. Il fatto che queste cassette abbiano un loro mercato in Calabria potrebbe evidentemente sottintendere una certa condivisione di quei valori. E il fatto che si consideri normale un fenomeno del genere e non lo si combatta, può significare due cose: o che siamo una società con degli anticorpi molto forti, o che siamo una società collusa. Personalmente non credo che la società calabrese abbia degli anticorpi molto forti…
Quando si parla di cultura popolare si parla di una cultura millenaria, e soprattutto condivisa. La musica della mafia non può essere più vecchia della mafia stessa, per cui parliamo di un fenomeno presente da un secolo e mezzo, due al massimo. Se si parla di mercato musicale, le prime cassette risalgono agli anni ‘70, mentre se consideriamo le cosiddette canzoni di carcerato, andiamo ancora più indietro nel tempo. Ad ogni modo i canti di carcerato erano una cosa completamente diversa. Ad esempio nei toni: i canti di carcerato sono malinconici, non c’è crudeltà o desiderio di vendetta, ma piuttosto il ricordo malinconico dei propri cari, della madre o della donna amata. Non ci sono quelle minacce cruente che troviamo invece nei canti di ‘ndrangheta, dove, a proposito degli infami, cioè di coloro che tradiscono, si dice che verrà loro spaccato il cuore, mangiato il fegato, oppure che finiranno murati nel cemento. I canti di ‘ndrangheta non vanno considerati cultura popolare anche perché non sono condivisi a livello regionale, ma nascono in una zona estremamente limitata della Calabria che non è, come qualcuno potrebbe pensare, l’Aspromonte, ma la periferia urbana di Reggio Calabria e Cosenza. Sono, cioè, un fenomeno urbano, e di conseguenza moderno.
Rimanendo nell’ottica di questa relazione con la tradizione popolare, è interessante analizzare l’immagine che i produttori dei cd hanno messo sulla copertina de Il canto di malavita: è la statua di una Madonna portata in processione e seguita dalla gente e da due carabinieri.
Un’immagine ambigua, soprattutto agli occhi di un pubblico straniero. Un giornalista ha addirittura scambiato quella processione per un funerale… Penso che nel centro e nel nord Europa sia incomprensibile il legame tra la devozione popolare e la ‘ndrangheta. Tale legame nella realtà non esiste; ma la signoria territoriale che le mafie esercitano nelle zone in cui sono presenti è tale per cui non ci sono momenti della vita della comunità che possano sfuggire a questo controllo. Per questo in alcune zone è diventato un elemento di prestigio il fatto che il mafioso del paese porti a spalla le statue dei santi durante le processioni.
Ma chi ascolta questa musica? Io dividerei l’Italia dall’estero. La presentazione che è stata data di questa musica all’estero (la musica di un popolo che si ribella per motivi nobili, che non accetta di sottomettersi alla dominazione piemontese, che non vuole essere influenzato dall’esterno, che lotta contro uno Stato ingiusto) ha attirato l’attenzione di un pubblico “alternativo”, di cultura genericamente di sinistra, composto da appassionati di musica etnica che hanno creduto probabilmente che queste canzoni fossero qualcosa di simile a quelle dei ribelli dell’America Latina.
In Calabria il discorso è diverso. Ci sono tante persone che ogni tanto comprano le cassette per curiosità. So che ci sono carabinieri e dirigenti di Questura che ne fanno collezione, che le ascoltano e ci ridono, anche perché i canti utilizzano un linguaggio e una terminologia così arcaici, ma anche così brutali, che nella vita quotidiana nessuno oserebbe utilizzare. E’ un linguaggio che facilmente appare ridicolo, paradossale, e purtroppo si fa l’errore di non considerarlo espressione di mentalità. E poi, come dicevo, c’è anche un pubblico che ascolta questa musica condividendone i messaggi ed i valori.