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QT n. 4, 24 febbraio 2007 Monitor

“Lettere da Iwo Jima”

Dopo “Flags of our fathers”, Clint Eastwood racconta la battaglia di Iwo Jima dal punto di vista dei giapponesi. E pur all'interno di un buon film, ineccepibile, il regista non riesce a volare così alto e scavare nel profondo come aveva fatto con il punto di vista americano.

L’idea di partenza è più che buona: è ammirevole, e intentata. Si tratta di raccontare una battaglia, una guerra, da entrambi i punti di vista. Vedendo le cose da un fronte e poi dall’altro. Di Clint Eastwood è uscito, il novembre scorso, “Flags of our fathers”, un film di guerra americano che racconta di Iwo Jima e della bandiera innalzata dai marines e immortalata in fotografia. Si trattava di un’opera decisamente complessa, che mescolava riflessioni sui rapporti tra realtà e ricostruzione, sulla retorica, sull’eroismo… Adesso stiamo dall’altra parte. Siamo sull’isola di Iwo Jima con i giapponesi, e ci identifichiamo con loro. Il discorso di Eastwood si fa molto più semplice, fino a risultare quasi semplificato: sull’isola, aspettiamo che sbarchino gli americani. Senza speranza, con davanti soltanto un destino di morte. Il film sta tutto in questa attesa, e nella successiva, tragica battaglia nei cunicoli.

La storia è visualizzata con la maestria che ormai ci si aspetta da Eastwood. Alcune soluzioni narrative o di sceneggiatura possono risultare non perfette, ma la padronanza registica di Eastwood è impressionante: sa realizzare intere sequenze con dolci movimenti in travelling della macchina da presa mentre, in altri casi, sta fermo a guardare; può dare un ritmo frenetico alle scene di battaglia oppure raffreddare il pathos con secchi flashback. La fotografia è decolorata, tratteggiata al carboncino. Il montaggio lascia ad ogni piano dei tempi che stupiscono: non è un montaggio in battere, ma sincopato, con dei trascinati che non ci si aspetta e delle anticipazioni degli stacchi assolutamente personali. Le musiche rimangono sullo sfondo, ma danno ad ogni scena la giusta caratterizzazione. Dal punto di vista tecnico, il lavoro cinematografico risulta di una fluidità incantevole.

Se nel primo film i giapponesi erano quasi assenti, adesso la stessa sorte tocca agli americani. Raramente, nei film di guerra, è consentito il salto di campo: cioè di riuscire a vedere una scena da un punto di vista e anche da quello ad esso frontale. Non si può andare contro le regole dell’identificazione mostrando entrambe le prospettive. Altrimenti diventa impossibile per lo spettatore fare la cosa che gli viene più facile: schierarsi con una delle due parti. Eastwood, per mostrare entrambe le posizioni, ha dovuto così realizzare due film distinti.

In America, i due film simmetrici di Eastwood sono andati decisamente male al botteghino. “Lettere da Iwo Jima”, invece, ha avuto un successo incredibile in Giappone. Sulla battaglia di Iwo Jima, in Giappone, non è mai stato girato un film. Questo di Eastwood sembra essere stato percepito dunque come un regalo inaspettato. Come se fosse un film che i giapponesi attendevano, e avrebbero voluto vedere, ma non sono riusciti a produrre. Hanno dovuto aspettare un vecchio saggio americano che lo realizzasse al loro posto. Il problema, per un giapponese, era quello di affrontare, con i mezzi della comunicazione di massa, un tema come quello della sconfitta. Una sconfitta certamente decorosa e degna, ma che rimane comunque bruciante. Una sconfitta che costringe un popolo orgogliosissimo a comportamenti vergognosi – nascondersi in grotte, mangiare vermi, morire di dissenteria.

Dei soldati, degli uomini, sono abbandonati in mezzo all’oceano senza possibilità di ricevere rinforzi, con pochi mezzi di difesa, privi persino di sostentamento. Dal punto di vista militare, di fronte a questa prospettiva, le possibilità sono due, e Eastwood le mette in scena in modo preciso e corretto: o ci si fa ammazzare “alla giapponese”, ponendo la questione dell’orgoglio (orgoglio anche nel morire) sopra ogni altra, o ci si fa ammazzare come lo insegnano nelle accademie militari americane: resistendo più che si può. Il generale che comanda a Iwo Jima ha studiato l’arte della guerra in America. La scelta della sua strategia è divisa tra mente e cuore. Alla fine, lascia che sia la ragione a prevalere: quando la difesa delle postazioni diviene impossibile, il generale ordina di privilegiare la ritirata al suicidio rituale, che appare alla maggioranza degli uomini in divisa la scelta non solo più onorevole ma anche più ovvia. La sopravvivenza viene percepita come un tradimento inconcepibile della propria identità di guerrieri, di sudditi dell’imperatore, di popolo.

Eastwood ci mostra queste combinazioni senza offrire giudizi. Eppure – nella gestione di tale complessa questione identitaria – “Lettere da Iwo Jima” si dimostra manchevole. L’esigenza di scarnificare e semplificare il racconto fa perdere al ragionamento la lucida ambizione che portava così in alto “Flags of our fathers”. La pellicola non riesce davvero a render vivo quel dilemma politico ed esistenziale. Quando invece la curiosità di vedere il film stava proprio nell’attesa di osservare come Eastwood sarebbe riuscito a raccontare l’anima giapponese in un contesto assurdo, capace di mettere a nudo, sulla carta, valori e psicologie.

Peccato, perché “Lettere da Iwo Jima” rimane comunque un buon film e un’operazione pregevolissima, a cui si chiedeva, solamente, ancora qualcosa di più.