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Due croci: di guerra e di vita

Mio padre in un lager: lui eroe obbligato, ed io che diventavo adulta di colpo.

Erano gli anni Trenta, mio padre era rimasto orfano a sei anni ed aveva un po’ alla volta, come figlio più grande, sostituito il padre nel lavoro nei campi e nella stalla. Sull’altipiano c’era molta miseria e isolamento come in tanti paesi del Trentino.

Disegno di Luigi Penasa.

La sua scuola era stata la dura vita di un orfano; alla maestra portava un dono alla fine dell’anno per farsi perdonare le molte assenze, ma era intelligente ed era promosso lo stesso.

Era poi cominciata la seconda guerra mondiale e lui, che era destinato a partire, per portare a casa due soldi in più aveva chiesto di entrare nei carabinieri; il 4 settembre 1943 si trovava a Bolzano di guardia al Ponte Talvera.

Assieme ad altri scappò sulle montagne sopra Bolzano. Dei contadini altoatesini lo nascosero per una settimana nel loro fienile poi, vilmente, senza dargli la possibilità di fuggire, lo denunciarono alle SS. Fu arrestato, picchiato, messo assieme ad altri su un treno piombato e deportato in Austria. Finì in un campo di lavoro molto duro, dove ricevevano poco da mangiare, ma abbastanza per non crollare a terra; le condizioni erano in ogni caso spietate e molti morirono.

Esaurito il lavoro, quelli sopravvissuti furono portati "per premio" a Mauthausen, il lager più vicino, e lì l’orrore era inimmaginabile.

Furono gli ultimi sei mesi di Mauthausen, i peggiori (è un eufemismo, lo so) perché i tedeschi, sentendo la disfatta, eliminavano i prigionieri per non lasciare tracce. Finalmente arrivarono gli americani e li liberarono.

Si era salvato perché non era ebreo, era un militare, aveva solo vent’anni e un fisico robusto, ma aveva perso più di 30 chili in due anni. Si reggeva a stento, ma assieme ad altri tentò di tornare in Italia a piedi.

Gli americani bombardavano e un loro ordigno lo scaraventò in un fosso dove rimase privo di coscienza per un paio di giorni, perdendo molto sangue. Dei contadini austriaci lo aiutarono, per davvero questa volta: lo misero sul loro carro, poi fu soccorso dalla Croce Rossa e mandato sei mesi in un ospedale in Svizzera.

Tornò a casa con le stampelle, la madre e i fratelli non lo riconobbero fino a quando lui non parlò.

Aveva una ferita di dieci centimetri alla caviglia (quelle dell’anima non si vedevano) che gli fece guadagnare una pensione d’invalidità di ultima categoria, una miseria paragonabile ai nostri 20 euro mensili, e una croce di guerra di cui - incredibile - andava fiero. Incredibile perché la sua sofferenza era stata inutile: vittima di un’ideologia criminale, fermata troppo tardi.

Ma lo Stato italiano poteva liquidare così a buon mercato uno dei tanti protagonisti di una tragedia immane? Insabbiando, sminuendo, rimuovendo, aspettando che tutti morissero un po’ alla volta, chi per le conseguenze, chi suicida, per poi creare la "giornata della memoria" e sollevarsi la coscienza? E’ giusto, non si deve dimenticare l’Olocausto, ma si ha l’obbligo di ricordare sempre la posizione di chi era al potere allora, Chiesa compresa, e che lo permise. Chiamarla "giornata della vergogna", sarebbe più appropriato.

Mauthausen nel giorno della liberazione.

Papà cercò di ricostruirsi una vita normale, fece per sei mesi un corso di infermiere all’Ospedale Psichiatrico di Pergine, ma le analogie tra manicomio e lager erano troppe e lui scelse Mesiano, dove si curavano i malati di tubercolosi.

Conobbe mia madre, la sposò ed ebbero tre figli.

Spesso a tavola parlavano della guerra, del fatto che avevano poco da mangiare, dei bombardamenti, nominavano il campo di concentramento, ma io non capivo cosa fosse, forse un modo per farci paura e costringerci ad essere bravi.

Avrò avuto dodici anni quando un signore si presentò alla nostra porta (mio padre stava imbiancando il soffitto del corridoio) e si fece riconoscere: era un ex prigioniero di Mauthausen, diceva a papà che gli doveva la vita, ma lui non voleva più ricordare, lo trattò freddamente e non era da lui. Prima di andarsene lasciò un libro, "Tu passerai per il camino", dicendogli che lì c’era tutto quello che avevano passato.

Il libro rimase sul comodino di papà, io ero una lettrice onnivora e a casa non c’era molto da leggere allora.

Quel libro ha sconvolto la mia adolescenza, facendomi aprire mente e cuore sulla tragedia immane dell’Olocausto. Sicuramente non era adatto ai miei dodici anni, c’erano foto devastanti perché i tedeschi documentavano tutto, il testo era impossibile da razionalizzare.

Mauthausen oggi.

Feci da sola un percorso nell’orrore, ma papà non poteva condurmi per mano o addolcirmi quella tragedia che si può o ignorare o conoscere, comprendere no, quello mai. Gli chiesi se fossero vere le cose scritte e lui, solo quella volta perché volutamente non ne parlava mai, mi rispose che la realtà era stata anche peggiore.

Diventai adulta di colpo, incorporando tutto il male del mondo, mentre gli altri vivevano la loro adolescenza senza sapere, acquisendo una sensibilità eccessiva forse, ma non era di me che volevo parlare.

Il ricordo è per mio padre: il suo animo buono che aveva resistito senza incattivirsi, il suo non essere mai stato bambino, la giovinezza trascorsa in un lager, l’essere ucciso dentro perché non si può mai sfuggire ad un campo di sterminio, la sua volontà di cancellare l’orrore, costruirsi una famiglia, avere corpo e anima distrutti e tacere dandoci la certezza che vigilava su di noi, il gioire a coltivare la terra, a far nascere fiori, a raccogliere funghi, andare a pescare, essere onesto, aiutare sempre gli altri e farlo per un sorriso, tenere stretta la mano al nipotino che era il senso della vita che va avanti.

E poi morire ancor giovane per un infarto di venerdì santo come Cristo in croce, ma senza risorgere.

Non sono credente, ma mi piace pensarlo felice e ignaro in un posto qualsiasi dove esiste l’oblio.

Lo ha meritato, lui eroe obbligato ed io orfana della loro guerra.