Il ritorno del prigioniero
L’altra Resistenza: le memorie dei militari internati.
Mi faceva disperare mio padre, quando nelle nostre interminabili discussioni entrava il tema della Resistenza. "L’abbiamo fatta noi la resistenza più vera, non i partigiani", diceva, e per noi intendeva quelli che erano stati prigionieri dopo l’8 settembre 1943 della Germania nazista e che avevano detto no alle ripetute proposte di optare per i tedeschi o per la repubblica mussoliniana.
Studente pretenzioso, in realtà di quella storia poco o niente conoscevo, ma mi pareva chiaro che un rifiuto ideale non si potesse confrontare con la ribellione attiva. Ho un ricordo sfocato di come quel rifiuto mi fosse raccontato, so però che faticavo a comporlo con la rivendicazione orgogliosa della sua partecipazione alla guerra fascista. Un’adesione volontaria, o comunque sentita come tale, che immise il ventenne Aurelio in una successione di catastrofi dalle quali non uscì indenne: la campagna di Russia e la ritirata, che gli sottrassero le energie più profonde; la prigionia in una remota Prussia, espulsa dai nostri atlanti postbellici; il bombardamento di Dresda con le fiamme che distrussero una delle più belle città d’Europa e innumerevoli vite. Della lunga dimora purgatoriale tra l’inferno di gelo e l’inferno di fuoco so pochissimo, perché mio padre non amava parlarne o forse perché non lo ho ascoltato abbastanza. Ma un messaggio da là mi è pervenuto in tempi recenti, in un modo tanto imprevedibile da assomigliare a una finzione narrativa.
Aprendo la cassetta della posta, una mattina, ho riconosciuto immediatamente la grafia di Aurelio su una vecchia cartolina postale tedesca. Il brevissimo testo era un’inequivocabile rivendicazione della sua resistenza: "Spero che la nostra scelta di rimanere qui a ogni costo non vi abbia dato dispiacere". Alla lettura dell’indirizzo ho capito finalmente che quella testimonianza non veniva dal cielo ma dal piano di sopra: inviata nel 1944 dalla Germania ad una famiglia amica, vicino alla quale ora abito, mi veniva imbucata dopo la scomparsa dell’ultimo dei destinatari.
Quando il lettore avrà in mano questo giornale, si sarà già svolto il piccolo convegno promosso dall’A.N.P.I. di Bolzano il 16 maggio, "La memoria affossata. Gli Internati Militari (IMI) 1943-1945". I relatori non potranno non tenere conto della forte sottolineatura proposta dal titolo. Ma perché questa memoria - anche questa, non certo essa sola - appare affossata o (come altri hanno scritto) rimossa?
L’incipit autobiografico può servire a esemplificare un duplice aspetto della rimozione. E’ presumibile che nel convegno gli storici insistano soprattutto sulla scarsa disponibilità della società italiana del dopoguerra ad accogliere la memoria dei reduci di quella prigionia, per ragioni non del tutto dissimili da quelle per le quali un ragazzo negli anni ’60 poteva essere sordo o disattento nei confronti del racconto di prigionia del padre. Quel "No!" pronunciato da tanti di quegli uomini chiusi fra i reticolati sembrò allora troppo poco politicizzato, troppo poco riconducibile alla forma politica che aveva assunto l’antifascismo per interessare la storiografia impegnata a indagare le radici della rinnovata democrazia italiana. E la sua esemplarità ideale appariva ancora troppo implicata in valori antichi (la dignità nazionale, la fedeltà al giuramento, l’orgoglio militare, un rifondato e tenace amor di patria) per essere assunta come modello dalle nuove generazioni. Viceversa il sofferto carico di sofferenza e di dignità degli ex prigionieri del Reich poneva il loro messaggio agli antipodi del reducismo nostalgico prevalente nelle associazioni combattentistiche.
Le chiusure di allora hanno comportato una duratura sottovalutazione della vicenda degli internati militari, che è tuttora opportuno
denunciare. E’ necessario tuttavia considerare con analoga attenzione l’altra faccia della rimozione, che è connessa intimamente all’esperienza stessa della prigionia.
C’è un passaggio esemplare nel diario di un roveretano, Giorgio Raffaelli (che sta per uscire in nuova edizione per iniziativa del Museo della Guerra di Rovereto, dopo quella pubblicata da Longo nel 1990). Data, fine gennaio 1945; occasione, il trasferimento dal Campo per ufficiali di Sandbostel a quello di Wietzendorf, non lontano da Brema e Amburgo. La difficoltà di raccontare e perfino di ricordare la prigionia si converte qui, paradossalmente, in una pagina memorialistica indimenticabile:
Giorni di calvario. Freddo intenso e bufere di neve. Calvario della miseria. Son cose di cui difficilmente può farsi un’idea chi non le ha provate. Come potrò rendere raccontando o descrivendo, l’esasperazione di quelle ore? Ha ragione Contarello: ci son delle cose che, raccontate, acquistano emotività e ingrandiscono, cose con cui simpatizzano vivamente gli animi di tutti per esserne la sensibilità già preparata e avvezza: tali i momenti rischiosi e avventurosi della vita, le vicende sensazionali ecc. Altre cose invece non guadagneranno mai dal racconto, anzi il racconto sarà sempre loro inferiore, sia perché non trova animi preparati sia perché, e soprattutto, il loro dominio si estende nell’intrico minutissimo degli aspetti più secondari e inavvertiti della vita - stillicidio atomico. E di questo genere son le ore passate nel precampo perseguitati da un accavallarsi pazzesco di ordini e contrordini, sbattuti da una lurida camerata all’aperto, sotto la neve per delle ore e poi di nuovo in baracca, coi bagagli o senza bagagli, ecc. oppure nel vagone bestiame buttati per terra (una diecina di gradi sotto zero), senza sapere quando si parte e quando si arriva, schiaffeggiati da violente manovre a spinta, irritati fino all’esasperazione da un bisogno urgente che alla fine occorre sbrigare sotto il naso e gli occhi di quaranta colleghi, in lite per il posto da dormire la notte ecc. ecc., mentre se l’occhio vuol distrarsi spiando dall’angusto finestrino per reclusi, non vede che uno sfilare monotono, interminabile, bianco di boschi e prati sotto un lento cadere di neve…
Occorre inoltre aggiungere che chi le ha provate, queste ore di sofferenza, quando si accinga a riesumarle dalla memoria (come io ora), già a breve distanza di tempo stenta a ritrovarle come egli le ha vissute, tanto le impressioni si diluiscono e perdono in un fitto grigiore lontano: l’oblio dissolve questa fitta minutaglia fastidiosa come la nebbia che nasconde gli sterpi nel suo passaggio radente sulla pianura".
E tuttavia Raffaelli, come molti altri, non rinuncia a scrivere (anche se poi terrà riservati a se stesso i suoi taccuini di prigionia). Quanti altri non rinunciarono?
Un ex internato colto e operoso, Claudio Sommaruga, ha redatto un’utilissima bibliografia ragionata di tutto quanto è stato scritto su deportazione e internamento dei militari italiani nel Terzo Reich. Il suo resoconto (edito nel 2001 ma aggiornato al 1996) passa in rassegna 260 testi memorialistici, cui si aggiungono 30 antologie con altri 675 testimoni. Dalle ulteriori elaborazioni, risultano in definitiva circa 1.000 testimoni di cui si possiedono memorie, anche brevi, edite. Assumendo come numero complessivo dei militari internati quello di 600.000, il curatore ne ricava un indice di 1 su 600. Molto meno, scrive Sommaruga, di quello che si può ricavare da analoghi conteggi per i reduci della campagna di Russia e della relativa, terribile prigionia (addirittura 1 su 50); molto meno ancora rispetto ai superstiti della deportazione nei campi di sterminio per motivazioni politiche o razziali (630 su 4500, il 14 per cento). Ma molto di più che nel caso dei prigionieri dei francesi e degli angloamericani: una memoria ancor più rimossa, dunque, la loro, pur trattandosi di un’esperienza di dimensioni quantitative quasi analoghe.
Questo tipo di statistiche può lasciare qualche perplessità, per l’estrema semplificazione della metodologia adottata. Almeno un altro dato però è opportuno estrarre da questo studio: del corpus edito, gli scritti e comunque le testimonianze degli ufficiali sono 430 su 1.000 (rappresentando questi il 4,2% della forza condotta in prigionia, stando ai suoi calcoli). Il rapporto è ancor più sbilanciato se si considerano i libri memorialistici d’autore e prescindendo dalle antologie: in questo caso gli ufficiali sarebbero 185 su 260.
Tuttavia si registra un fenomeno rilevante negli ultimi decenni: edizioni sempre più frequenti di diari, di memorie, di testimonianze, tanto da far parlare Sommaruga, con linguaggio sportivo venato di ironia, di uno "sprint finale".
Un censimento limitato al Trentino, condotto da Lorenzo Baratter e da me su incarico del Museo della Guerra di Rovereto in collaborazione con il Museo storico in Trento, conferma l’esistenza di una notevole dinamica, in questo campo. Tra gli autori editi che abbiamo reperito è consistente la presenza di soldati e sottufficiali, più della metà, il che costituisce una notevole correzione rispetto alla panoramica descritta a livello nazionale.
L’ottica particolarmente ravvicinata del lavoro ha consentito di reperire anche quelle edizioni locali e famigliari che sfuggono su scala più vasta. Ma poi va detto che il più agevole accesso alla produzione editoriale, che caratterizza gli ultimi decenni, ha consentito l’emersione di testi un tempo condannati alla marginalità. Sono proprio gli ultimi anni a dare il maggiore contributo di edizioni: su 37, solo 7 sono anteriori al 1990, mentre a partire dal 2000 ne abbiamo 19. Il censimento rileva dunque una liberazione delle memorie in atto, sulla quale sarebbe necessario svolgere una più ampia riflessione.
La graduale, inesorabile scomparsa dei testimoni non coincide sempre con lo scomparire della loro capacità di testimoniare; al contrario, sempre più spesso, un diario o un epistolario riemersi post mortem tra le carte diventano un’occasione per onorare il ricordo. Il Trentino è particolarmente fitto di soggetti interessati a farsi carico di una memoria che tenda ad assumere una valenza comunitaria. L’edizione di un diario può diventare, in altre parole, una forma nuova di erigere un monumento.
Il censimento si è esteso anche ai testi inediti, reperendone una trentina di varie tipologie (ma chissà quanti ne esistono ancora nei cassetti e negli armadi).
In massima parte sono raccolti in quel deposito di preziosi che è l’Archivio della Scrittura Popolare presso il Museo Storico in Trento. Alcuni sono presso il Museo della Guerra di Rovereto. Altri sono emersi durante la ricerca, ai quali vanno aggiunti nuclei di documentazione varia, talvolta rilevantissimi. I numeri non dicono niente, ovviamente, sulla qualità.
Letta con rigore critico, la memorialistica costituisce una fonte preziosa anche per ricostruire "come sono andate effettivamente le cose", come si chiede alla più tradizionale delle storiografie. Ed è indispensabile quando entrano in gioco le trasformazioni delle coscienze e le dinamiche psicologiche. Per restare al tema più politico, emerge una grande varietà di testimonianze sulla tormentosa questione dell’opzione. Forse per la prima volta affiorano numerosi testi di optanti per la collaborazione. Ma anche nei diari e nelle memorie di quanti resistettero "a qualunque costo", il tema si rifrange in diverse rielaborazioni, particolarmente interessanti per chi si accosta al tema della soggettività degli italiani in guerra.
Tra queste carte inedite, va segnalato almeno un eccezionale documento non memorialistico che solo da poco è entrato a far parte del patrimonio del Museo di Trento. Si tratta degli appunti delle lezioni e conversazioni di Bruno Betta nei Lager, intese a tracciare i fondamenti di un’educazione civile democratica.
Mentre nazismo e fascismo ancora ingombrano la scena, un professore del Liceo di Trento prova a volgere la prigionia in occasione, fa scuola per un futuro da costruire insieme, ragiona e fa ragionare sui nuovi orizzonti di un liberalismo capace di informare la società di massa.