Letteratura sudtirolese
Tre libri che danno l’immagine di un Sudtirolo in movimento.
Non è la prima volta che in questa rubrica si riferisce di letteratura sudtirolese. Chi scrive appartiene ad una generazione (o a un gruppo trasversale?) per cui i libri costituiscono un aspetto essenziale della vita. In una realtà particolare come il Sudtirolo plurilingue, la letteratura, più dei dibattiti pubblici e più della politica, costituisce uno strumento di comprensione di come vanno le cose. Lasciato da parte l’ultima fatica di Joseph Zoderer, ("Wir gingen - Ce n’andammo", in edizione bilingue), scrittore che ha ormai superato i confini di regione e di stato ed anche di lingua, tradotto com’è in molte altre, partiamo dall’opera ("La città dove le donne dicono di no")di Alessandro Banda, un giovane meranese, che ha già pubblicato altri lavori.
E’ un libro, edito da Guanda, che si legge tutto di un fiato, con il solo rallentamento dovuto (voluto) per godere della bellezza della lingua. Un libro che esprime in modo notevole quelle coppie di odio e amore, appartenenza ed estraneità, che caratterizza così esplicitamente il rapporto di tanti abitanti delle città situate in provincia di Bolzano con la loro terra.
Il libro racconta la quotidianità, fatta di comportamenti abitudinari e di piccoli avvenimenti, di una cittadina della periferia sudtirolese, che ha comunque, essendo città, l’ambizione di distinguersi dalla vita di paese e si sente metropoli, con le dovute differenze, ma con i difetti di gelo nei rapporti umani e di indifferenza al destino altrui che sono tipici dei grandi centri.
Ossessionati dalla questione dell’identità, anche in prospettiva storica (c’è anche un incontro risalente al 1920 fra Kafka e Proust), i suoi protagonisti non sono del tutto irriconoscibili, almeno come tipi, soprattutto se si tratta di politici comunali o aspiranti tali (Idra Karpur o "l’ignobile professorino aspirante assessore") o altri personaggi in qualche modo presenti sulla scena pubblica (ma "a Meridiano tutti sanno tutto di tutti" - si dice nel libro). Abitanti moderni, quindi spesso bilingui, capaci di apprezzare o comunque non in grado di rinunciare alle due gastronomie e alle abitudini mutuate da un gruppo all’altro, eppure non perfettamente a proprio agio in una società in cui il diritto di cittadinanza è fatto discendere dalla primigenia o dall’appartenenza alla fitta rete di associazionismo obbligatorio che costituisce la specialità locale.
Eppure il libro di Banda non è per nulla un trattato, o un libro per insider, né vi domina la malinconia, ma al contrario è letteratura godibile da ognuno che abbia esperienza di quella sensazione di essere estranei che prende talvolta in città conosciute. Senza confessioni, vi regna un’ironica (e autoironica) allegria. Eppure non si sfugge all’inquietudine di scoprire che la città di Meridiano, sotto cui (non) si nasconde Merano, nello scorrere di storie personali e di vicende cittadine anche molto banali, assomiglia per molti versi a un non-luogo. Una sensazione assurda, se si pensa all’attenta ricerca di radici, nei caffè, nei vecchi palazzi, nelle storie di vita di persone scomparse, nella puntigliosità della richiesta di rispetto nelle relazioni umane. Forse nei libri si trova ciò che si cerca, e in sostanza lo specchio di se stessi nel momento in cui si legge, ma questa è l’impressione più forte che è rimasta da questa piacevolissima lettura.
Quanto diversa la lettura di "El Nost", un lungo racconto in ladino gardenese, pubblicato con testo a fronte con traduzione in italiano, in un volume di "Letteratura gardenese" a cura di Walter Belardi, glottologo e studioso di ladino.
E’ la storia della vita di un uomo a partire dall’inizio del Novecento, in tempi di grande povertà, di guerre e di epocali cambiamenti nella vita del maso di alta montagna in cui è ambientato. Il racconto della vita quotidiana, di stagione in stagione, del lavoro nei campi, dei rapporti famigliari, della vita di paese, rada e legata alle celebrazioni religiose, la descrizione appassionata della natura, fonte di serenità, di gioia e di senso della vita. Frida Piazza si cimenta nella letteratura a partire dalla sua condizione di studiosa di lingua gardenese, un lavoro che continua ormai ultraottantenne, e trasferisce attraverso le cose semplici della vita contadina di ogni giorno, oltre alla descrizione del mondo in cui ha vissuto, una visione rigorosa, etica e piena di comprensione per le vicende umane, di tenerezza per la durezza della vita e di meraviglia distaccata per il mondo che cambia e che lei guarda dal maso più alto sopra Ortisei, diventata città, con le luci che si accendono di sera, quando lei finisce di fare la sua passeggiata nel bosco sopra la casa.
Il terzo libro ("Tagebuch") è il diario di August Pichler, avvocato, un Dableiber di Bronzolo, impegnato nel 1939 contro le opzioni a favore della Germania, il quale, per timore di essere arrestato all’indomani dell’occupazione dell’esercito tedesco, si nasconde e in Trentino e infine si rifugia in Svizzera.
Il libro è il diario di questa lontananza dalla moglie e dai sei figli, amaramente sentita, e delle considerazioni a proposito dell’ospitalità svizzera e del futuro del Sudtirolo, che il protagonista, supportato da una visione romantica dell’impero asburgico e da una ferma diffidenza verso l’Italia, conosciuta al tempo del fascismo, spera, contro ogni evidenza, venga restituito all’Austria. E’ una testimonianza particolare, in cui il rifiuto del nazismo viene da una persona estremamente conservatrice nelle relazioni umane e sociali, ed estremamente coerente, per motivi religiosi.
E’ un libro che si inquadra in una attività di ricerca e testimonianza storica a tutto campo, che rompe i tradizionali schieramenti etnici che caratterizzano in genere la bibliografia storica sudtirolese.
Questi tre libri danno un’impressione del Sudtirolo in movimento, a varie velocità, senza lasciare le radici. Rinsecchita la creatività a livello politico e civile, soffocato dalle logiche di partito e dalla faziosità della stampa, sul piano artistico e culturale il Sudtirolo sembra ribellarsi all’appiattimento e alla mancanza di speranza per il futuro e ritrovare in sé risorse culturali e spirituali da contrapporre al modello dominante di benessere materiale e di militanza etnica.