Miar sein miar
Sapere il tedesco non basta più. Bisogna imparare anche il dialetto.
La giunta provinciale ha inserito la conoscenza del dialetto sudtirolese come requisito per l’assunzione in un call-center che sostituisce il servizio di informazioni alla cittadinanza che normalmente dovrebbe essere fatto dalla burocrazia provinciale. Ne è nato un vivace e articolato dibattito pubblico. L’avvocatura dello stato ha impugnato la delibera, Durnwalder ha detto che se l’avesse saputo (davvero accade qualcosa a sua insaputa?!) non avrebbe dato il suo assenso; ma pochi giorni dopo l’annuncio del ricorso dello Stato, una seconda delibera ha stabilito lo stesso requisito per un’altra situazione.
La motivazione dei sostenitori è interessante: si afferma che molti sudtirolesi di lingua tedesca non sono in grado di comprendere il tedesco, e quindi si deve parlare in dialetto. Ciò che si sottintende è assai grave, se corrisponde a verità, perché ciò significa che a sessantatrè anni dalla ripresa della scuola in lingua tedesca, ricostituita da un pezzo la classe insegnante che fu cancellata dal regime fascista, la popolazione sudtirolese non gode ancora di un’istruzione sufficiente a comunicare a livello standard, e che l’unica lingua conosciuta dalla minoranza è costituita da una delle diverse e numerose forme di dialetto, che variano di valle in valle e spesso nella stessa valle da paese a paese. Una catastrofe culturale, è quella che viene qui sostenuta da coloro che ne sono i diretti responsabili, cioè i politici, poiché in Sudtirolo il controllo della politica sulla scuola è da sempre totale.
Nel corso del dibattito, è stato rivelato che, nonostante i numerosi inviti e le circolari, ancora oggi nelle scuole di lingua tedesca i docenti parlano spesso in dialetto, in parte perché non conoscono essi stessi un tedesco corretto. La cosa si riscontra più raramente tra i docenti di tedesco, ma è frequente per gli insegnanti di altre materie o addirittura la norma per quelli di ginnastica. Così, dicono alcuni insegnanti, la scuola non assolve il suo dovere di dare ai giovani e alle giovani un ambiente in cui esercitare la lingua.
“Scuole, mass media, uffici e politica dovrebbero parlare la lingua” ha affermato un radioascoltatore a un microfono aperto del Sender Bozen. A sostegno di questa posizione è stato sventolato anche lo spettro dell’Alsazia dove, si è detto, “si parla solo alemanno e non si conosce più la lingua tedesca”. Per comunicare nell’ambito linguistico tedesco ci vuole la conoscenza della lingua, hanno ribadito in molti. Una linguista ha affermato che i dialetti hanno il loro ruolo per la coesione del gruppo, ma altrettanto importante è la conoscenza della lingua, che permette di uscire dai ristretti confini provinciali e confrontarsi con gli altri. Un altro genere di obiezione è che l’uso del dialetto serve a definire chi fa parte del gruppo “die Unsrigen”, i nostri, ed escludere gli altri. Anche le persone bilingui vengono dunque selezionate in base ad un criterio di riconoscimento “interno”.
In un ambito plurilingue, è evidente l’effetto di una simile pratica. Dalle valli ladine viene la ferma richiesta che, se si vuole introdurre l’obbligo di conoscenza di una terza lingua, questa non può essere il dialetto o uno dei dialetti tedeschi locali, ma il ladino. A parere di chi scrive, rimarrebbe comunque il problema di quale idioma scegliere; se infatti per lo scritto si può optare per la variante standard (Ladin Dolomitan), per l’orale ne siamo ancora lontani. Per gli italiani è evidente che, salvo qualche raro caso, in genere la richiesta di conoscere il dialetto oltre alla lingua tedesca, già questa male insegnata nelle loro scuole e difficile ad apprendersi bene in una realtà di separazione, diventa un obiettivo in generale irraggiungibile.
L’esternalizzazione dei servizi dello Stato era stata accompagnata da un’estensione dell’applicazione delle norme, proporzionale e bilinguismo vigenti per il servizio pubblico (ferrovie e poste); l’esternalizzazione dei servizi della Provincia, attuata in un primo tempo per aggirare l’obbligo della proporzionale, in questa maniera porta ora alla cancellazione delle norme di garanzia paritaria degli appartenenti a gruppi linguistici diversi. Poco più di una decina di anni fa era la Lega Nord che proponeva di introdurre cultura e storia locale come condizioni per l’accesso all’insegnamento, soprattutto nel Nord e, se non ricordo male, la proposta era stata fatta anche in Trentino, in cui era presente un nucleo di questo movimento-partito fortemente aggressivo verso gli insegnanti di origine non trentina (tantissimi, cui vanno riconosciuti grandi meriti nello svecchiamento di una realtà prima molto chiusa). L’intenzione allora era evidentemente discriminatoria. Ciò non vuole affatto dire che non sia auspicabile - e in realtà qualcosa si fa - che i docenti siano informati sulla realtà in cui lavorano e che si insegnino anche elementi di cultura e storia locale indispensabili per comprendere l’ambiente e inserirsi nelle società, soprattutto se sono complesse come quella sudtirolese. E - perché no? - anche una certa conoscenza del dialetto è utile per poter condividere e allargare esperienze famigliari e amicali, e per capire i bambini. Ma di qui a introdurre nella costituzione reale sudtirolese il discrimine del dialetto, c’è una bella differenza.
Le conseguenze negative di questa nuova iniziativa della politica della Svp, - peraltro con l’incomprensibile assenso dei confusi rappresentanti italiani in giunta - oltre ad avvelenare il clima delle relazioni fra gruppi, solleticando in entrambi le pulsioni di esclusione reciproca, ricadono tuttavia fortemente sulla popolazione di lingua tedesca - o dovremmo dire di lingua dialettale sudtirolese - cui viene suggerito che non vale la pena di darsi gli strumenti per comunicare con l’ambito culturale e linguistico cui appartengono.
Il giochetto con il dialetto come requisito contribuisce a un pessimo risultato: mostrando comprensione verso l’impossibilità di avvicinarsi a testi letterari, artistici, scientifici di lingua tedesca, e dato per scontato che ciò non avviene certo per quelli di lingua italiana, si restringe l’ambito identitario, e la minoranza si fa prigioniera di una concezione cristallizzata, conservatrice e meschina dell’identità.
Così, di nuovo, le misure di tutela politica dell’esistente, anziché farlo essere punto di partenza per coniugare radici e modernità, paralizzano il gruppo che le mette in atto e creano una situazione di convivenza impossibile con chi non fa parte del “miar sein miar” (noi siamo noi), più che mai in voga.