“Memorie di un internato psichiatrico”
Antonio, Psycopathia sexualis. Memorie di un internato psichiatrico. A cura di Quinto Antonelli e Felice Ficco. Museo Storico in Trento, 2003, pp. 230, 16,80.
Nel settembre del 1980, sul primo numero di Questotrentino, pubblicavamo un racconto (Colpo gobbo) tratto dai quaderni manoscritti di Antonio (il nome è di fantasia), che l’autore, al momento ancora ospite del manicomio di Pergine, ci aveva fatto pervenire. Otto anni più tardi, Antonio si fece vivo dicendo che aveva dell’altro materiale, poetico stavolta, che magari poteva interessarci, e fui io a raggiungerlo nella casa di riposo dove viveva da che, il 31 marzo 1981, era stato dimesso dall’Ospedale psichiatrico.
Sapevo pressappoco chi era Antonio, e cosa aveva combinato nel corso degli anni fra un ricovero e l’altro, ma me ne dimenticai quasi subito, leggendo quei testi poetici fuori tempo, da "minore dell’Ottocento" e vedendo quell’uomo che si presentava con grande decoro, accennando appena, senza alcuna enfasi, a imprecisati "casi della vita" che lo avevano portato fin lì, in compagnia di persone non del suo livello. Mi fece l’impressione di un maestro elementare in pensione (allora aveva 65 anni), curioso, bisognoso di compagnia e di una conversazione che esulasse dalle vicende quotidiane della casa di riposo.
Da allora prese l’abitudine di telefonarmi, ogni 2-3 mesi, chiedendo che lo andassi a trovare, col pretesto di altro materiale "letterario", che poi, il più delle volte, dimenticava perfino di mostrare.
La cosa andò avanti forse per un paio d’anni, finché all’ennesima telefonata, capitata in un momento infelice, gli risposi senza riuscire a nascondere un certo fastidio e da allora Antonio non si fece più sentire. Ho avuto ancora notizia di lui solo molti anni dopo, l’anno scorso, quando ci ritornò indietro la copia di QT che gli arrivava in abbonamento, con la dicitura "deceduto".
Antonio del "materiale" ne aveva effettivamente prodotto molto: un’ottantina di quaderni (molti dei quali andati però smarriti) riempiti durante i suoi trent’anni a Pergine, fra racconti, poesie e, soprattutto, testi autobiografici, che poi sono quelli che, opportunamente selezionati e ordinati cronologicamente, costituiscono questo volume, un’altra tappa in quella esplorazione della "scrittura popolare" che il Museo Storico in Trento sta meritoriamente compiendo da anni ad opera soprattutto di Quinto Antonelli.
Scrittura popolare è anche questa di Antonio: per le citazioni latine scorrette, per il continuo ricorso alle virgolette, per l’ingenuo, irrefrenabile desiderio di mostrare le proprie conoscenze storiche o letterarie che lo porta a infarcire gratuitamente le sue memorie di infiniti titoli di libri, per l’emergere – qua e là – di preziosismi terminologici dissonanti rispetto alla materia trattata. Detto questo, però, bisogna riconoscere che Antonio sa raccontare e raccontarsi con vivacità, precisione e profondità: con un normale lavoro di editing, insomma, le sue memorie avrebbero potuto trovare posto in una – sia pur non eccelsa – letteratura "normale".
A tener desta l’attenzione del lettore contribuisce in buona misura l’eccezionalità di una vicenda che lo vede, dal 1935 (quando aveva 15 anni) fino al 1981, praticamente sempre ristretto in una qualche istituzione totale: il riformatorio di Torino, il carcere di Trento, il manicomio di Volterra, quello di Reggio Emilia, fino all’ultima tappa, Pergine.
Dal protagonista consapevole di una così lunga vicenda ci aspetteremmo soprattutto una denuncia di brutture e crudeltà, e difatti Antonio parla di cimici e pidocchi, di ricoverati tenuti per settimane in letti di contenzione, di perquisizioni effettuate in piena notte, di proiezioni cinematografiche e funzioni religiose come occasioni propizie agli approcci e alle violenze sessuali, della fame patita durante gli anni di guerra, che lo indusse, complice un infermiere, a uccidere e a mangiarsi il cane di un medico.
Ma l’interesse primo di questa lettura consiste nel seguire il percorso interiore di un ragazzo che a 10 anni legge la "Psycopathia sexualis" di Krafft-Ebing, prestigioso testo scientifico ma ancor più pruriginosa antologia di casi clinici, e che riconosce ancor meglio la propria vocazione tre anni più tardi, nelle monotone elencazioni de "Le 120 giornate di Sodoma" di De Sade.
Le ragazze non lo interessano, con l’eccezione delle gambe, verso cui indirizza le sue prime fantasie sadiche: "Mi parve di vedermi… nell’atto di piantare un ago arroventato in una delle gambe femminili che mi folleggiavano continuamente nella testa. Lo sconvolgimento che ebbero, in quel momento, i miei sensi, era straordinario. Entrai subito in uno stato di orgasmo". E finalmente nel 1938, a 18 anni, con al suo attivo già diverse esperienze di riformatorio e tre mesi di osservazione al manicomio di Pergine, arriva a mettere in atto le sue fantasie aggredendo un bambino: "Quello che feci subire al piccolo… è presto detto: tutte le sevizie che una mente contorta può immaginare senza giungere alla violenza carnale… Dopo una mezzoretta di quelle ‘manovre’ eiaculai, scaricando così la furia che avevo addosso".
"Siamo in presenza di un caso di netta degenerazione del carattere, di un immorale costituzionale" – è l’esito della prima delle numerose perizie cui verrà sottoposto negli anni e che lo dichiareranno, di volta in volta, seminfermo di mente, sano e totalmente infermo, ribadendo comunque, ogni volta, la sua pericolosità sociale.
Nel marzo del ’40 è dimesso e ritorna a casa, ma passano appena una ventina di giorni e Antonio compie una nuova aggressione su due ragazzini di 6 e 9 anni che lo riporta, dopo un breve soggiorno in carcere e poi a Pergine, al manicomio di Volterra, dove resterà 6 anni: un periodo – scrivono i curatori "decisivo per la [sua] definitiva strutturazione personologica e sessuale. Siamo convinti, leggendo le sue memorie, che il periodo trascorso nel manicomio di Volterra sia stato il migliore della sua vita. Spesso egli ne rievoca i ricordi e più volte, in seguito e fino a tarda età, vi ritorna, quasi a voler riscoprire le atmosfere, gli odori e i colori di quegli anni, che seppure impregnati di situazioni tetre e scabrose, purtuttavia restano paradossalmente vive".
Dimesso il 12 maggio del ’46, Antonio rimane in libertà solo fino al 1° giugno, data dell’ennesima aggressione, stavolta con più esplicite connotazioni omosessuali. Sicché riprende la trafila: carcere, Pergine, ancora carcere e infine – dal 1947 al ’51 - manicomio criminale di Reggio Emilia, dove Antonio rafforza il suo equilibrio: lavora alla biblioteca, scrive poesie che lo fan diventare il protetto del medico di reparto, avvia con un altro ricoverato una storia d’amore – peraltro conclusa tragicamente col suicidio del partner. In sostanza - commentano Antonelli e Ficco - "Antonio ha definitivamente saltato il fosso. Non ha più dubbi sulle sue scelte sessuali e sul suo ruolo all’interno della società. Si sente completo, tutt’uno con l’istituzione".
L’ultima, lunga tappa di Antonio sono i trent’anni all’ospedale psichiatrico di Pergine, dove ormai "si sente superiore agli altri ricoverati, ma anche agli infermieri e, forse, a qualche medico". In una lettera al medico di reparto, nel ’59, scrive orgoglioso: "Ne trovi un altro, fra tutti i 250 ricoverati del ‘Perusini’, che, col mio misero titolo di scuola primaria, sia riuscito a comprendere il comprensibile delle 14 epistole paoline; che abbia letto il Corano, che conosca, attraverso l’opera nietzschiana, il pensiero filosofico di Zaratustra. Me ne presenti un altro che sappia che è esistito un Axel Munthe, e che questo signore ha scritto quel capolavoro che è ‘La storia di San Michele’. Chi c’è, qui, che conosca l’esistenza di un Garcia Lorca, o di un Giorgio Bernanos, o di un Kostler, e ne abbia letto le opere?"
Ma come giudicava, un uomo con tanta apparente stima di sé, le turpitudini commesse? Commentando la sua prima aggressione, Antonio spiega: "Ero ben sicuro che sarei finito in carcere…, ma mi stavo dicendo che ‘il santo valeva la candela’. Per il resto, il dispiacere che avrei dato alla mia famiglia e l’onore e il decoro irrimediabilmente compromessi erano considerazioni sulle quali non mi soffermavo molto, preso, com’ero, dalla bramosia - ora posso dire anche ‘bestiale’ -– che avevo indosso, e dal desiderio di ‘sfogarmi’ su qualcuno".
E a proposito del successivo episodio: "Quelli erano momenti nei quali non ero io che agivo, ma il demonio che avevo indosso, il mio sangue ‘calliente’ che mi toglieva la possibilità di ragionare normalmente. (…) Faccio quello che voglio di qualche ragazzino - mi dicevo - poi vado nuovamente in galera, ma almeno mi sfogo".
Era più forte di lui - potremmo banalmente riassumere - e ne consegue che Antonio non si sente pienamente responsabile di quanto commesso, pur riconoscendo alla società il diritto di difendersi rinchiudendolo. Alle insistenze del fratello, gran lavoratore, affinché si ravveda e trovi una occupazione, reagisce abulicamente: "Ero arrivato fin oltre i 25 anni, senza arte né parte. Tra collegio, riformatorio giudiziario, carcere e manicomio, avevo consumato i miei anni senza apprendere nulla di positivo, e imparando invece tante cose che sarebbe stato meglio io avessi ignorato". La partita è ormai persa, insomma, almeno quella che vorrebbero imporgli. Ma rimane una possibilità, quella – scrivono i curatori - di "una vita istituzionale dove può interpretare il suo personaggio di eroe maledetto, allo stesso tempo autore e protagonista del suo romanzo".
"Con la sua scrittura – osserva nella sua introduzione lo psichiatra Giacomo Di Marco, che ebbe modo di seguirlo - Antonio continua a ribadire che la sua permanenza all’interno delle istituzioni è anche frutto di una scelta e pertanto la sua vita non può e non deve confondersi con quella degli altri sventurati e che fin quando scrive non ha ancora perduto la sua capacità di pensare e di essere ancora un soggetto".