La necessità d’indignarsi
Le sparate di Bossi e Berlusconi, da Roma ladrona ai politici ladri, non sono innocue chiacchiere da bar.
Silvio Berlusconi ha superato se stesso. In una settimana ha definito la Costituzione sclerotica, la Consulta un covo d’infiltrati, le istituzioni della Repubblica mondi inquinati dai residui dell’antico regime, atti normali di controllo dei corpi dello Stato avvisaglie di uno stato di polizia in arrivo, i politici ladri tout court, poi - bontà sua - ha limitato l’insulto solo ai politici della sinistra.
Bar Sport - hanno minimizzato in molti; posizioni da disperato - ha commentato qualche minimalista; eccellente tentativo di rimettersi in sintonia con il sentire comune della gente - hanno chiosato gli esperti di marketing elettorale. A pochi è rimasta la forza (o la voglia) d’indignarsi e di reagire, non è più di moda: lo hanno fatto Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca su Repubblica, Rosy Bindi dalle colonne de L’Unità. Qualche reazione c’è stata nella nostra lontana periferia trentina. Ancora, come in tante occasioni, esigue minoranze.
Eppure in discussione non è la solita bagarre berlusconiana sulla sinistra e sui comunisti alle porte. C’è qualcosa di più, di più grave, che anche fosse polemica da bar Sport, anzi proprio per questo, dovrebbe essere rintuzzata con vigore. Perché Berlusconi passerà, ma il qualunquismo e la deformazione della storia, seminata in questi anni con impudenza e senza un’adeguata risposta di quanti avrebbero il dovere di sentirsi eredi della storia repubblicana, lascerà segni nefasti anche dopo il possibile e atteso sgretolamento dei muri della Casa delle Libertà. Forse che vent’anni di imbottitura propagandistica fascista non hanno lasciato tracce durature nel costume e nel pensiero degli Italiani per molti anni a seguire il crollo del regime?
Pochi rimpiangono gli anni decadenti della politica senza moralità che accompagnarono l’ultima fase della prima repubblica. Se qualcuno lo fa è perché trova facile dimenticare le degenerazioni di ieri in presenza delle grottesche miserie dell’oggi, o perché - protagonista di quella stagione - non sa rassegnarsi alle perdite degli antichi status e di qualche lauta prebenda. Nessuno può dimenticare la cappa asfissiante di contrapposizioni senza sbocchi che condizionò la vita nell’Italia centrista degli anni della guerra fredda, e le speranze troppo presto appassite del primo centro-sinistra.
Eppure la Costituzione della Repubblica garantì il minimo vitale di democrazia che in tanti altri paesi europei andò perduto. Si completò il compito cui la sinistra si era cimentata dall’inizio del Novecento di trasformare "la plebe in popolo" e di garantire ad esso, pur tra tante tensioni e squilibri, scuola, casa, ospedali, lavoro, diritti.
Quella Costituzione fu conquistata da minoranze di "rivoluzionari di professione", da cittadini che più normalmente della politica fecero, per una vita o per una parte di essa, un impegno di lavoro civile. Minoranze che non si piegarono durante il fascismo, che combatterono durante la Resistenza, che tennero ferma la bussola della ragione quando gli scontri ideologici totalizzanti paralizzavano il civile confronto. Minoranze che in Parlamento, nel sindacato, nella cultura, nella scuola difesero diritti, frenarono soprusi, garantirono appunto il minimo vitale per una democrazia sostanziale che non perdesse, nei feroci conflitti del tempo, la bussola del dettato costituzionale. Sono stati professionisti della politica, né poteva essere altrimenti, perché lo scontro politico e sociale era talmente forte e continuato che non era pensabile andare il lunedì in ufficio e il martedì in Parlamento, in primavera a lavorare in fabbrica e in autunno dedicarsi al sindacato.
Sclerotica la Costituzione? Ladri i politici (e i sindacalisti, perché il ruolo fu per molto tempo a sinistra, ma anche nella Dc, interscambiabile) che ne garantirono almeno una parziale attuazione, tra scontri sociali e tintinnar di sciabole, nelle stagioni del grande freddo internazionale?
Erano le tesi di Gugliemo Giannini, il leader dell’Uomo Qualunque proprio all’indomani della Resistenza, nella stagione alborale della Repubblica. Reagì allora con vigore la sinistra e in maniera inglobante e curiale, ma non meno efficace, la Democrazia Cristiana. Ci ha riprovato Umberto Bossi quarant’anni dopo con lo slogan di "Roma ladrona". Lo si è lasciato dire per molto tempo. Troppi erano stati i misfatti compiuti in quella stagione, e un imbelle tatticismo ancora condiziona la sinistra, come era già successo ai liberali nei primi anni Venti con il fascismo: "Lasciamo che demoliscano, a modo loro, l’avversario socialista; penseremo poi noi a farli rientrare nei ranghi". Sappiamo come andò a finire allora. E anche oggi paghiamo lo scotto delle furbizie tattiche consumate dalla sinistra nell’ultimo decennio.
Tacere ancora dunque? Minimizzare? Considerare l’insulto e la demolizione degli architravi della Repubblica alla stregua di una campagna elettorale sopra le righe, da "disperati"? Parlar d’altro? Certo c’è molto altro di cui parlare: dell’Italia impoverita e screditata, di un’economia e di una società che basta grattare un po’ e scopri piena di voragini e di illeciti. Ma non si risana né l’economia, né la società, se se non si difendono e rivendicano le ragioni e l’onore di una storia. Quella che dovrebbe essere la storia condivisa d’Italia e che da Berlusconi condivisa non è.