Il tramonto del “Mattino”
Il Sudtirolo resta con un solo quotidiano in lingua italiana.
L’ultimo giorno è apparso con la prima pagina bianca e una curiosa citazione in cui si dice in sostanza che un articolo di giornale è effimero e dura poco meno dello spazio di lettura. Non sono d’accordo, ritaglio e conservo gli articoli che mi piacciono e tra i miei libri del cuore ho una raccolta di articoli di Alessandro Galante Garrone apparsi qualche decennio fa sulla Stampa di Torino.
A piè di pagina c’è uno sfogo: "Questo è l’ultimo numero de Il mattino di Bolzano e provincia, già Il mattino dell’Alto Adige; dopo quasi 15 anni di pubblicazioni, da domani non lo troverete più in edicola. A noi dispiace. Speriamo che dispiaccia anche a voi (almeno un poco)".
Certo che ci dispiace. Strano che ce lo chiedano. Un giornale dovrebbe essere soprattutto delle sue lettrici e dei suoi lettori, altrimenti non è. Forse è proprio questo che è mancato al Mattino: direttori che credessero in questo invece di persone che volevano mettere alla prova se stesse.
La redazione inizialmente giovanissima era diventata con il tempo un gruppo preparato ed entusiasta, cresciuto professionalmente nonostante gli sbandamenti, ben radicato nella realtà, attento alle questioni del sociale, dei quartieri delle città, ma anche a capire, trasversalmente, alcune questioni ambientali cruciali. Ricordo la campagna sull’Alemagna del 1993, quando l’opposizione della gente divenne fortissima e i politici locali furono costretti dall’opinione pubblica ad opporsi alla rovina del più bel paesaggio alpino dolomitico ad opera dell’autostrada proposta dalla Batia AG all’ANAS e ai corrotti ministri di allora.
All’indomani della dichiarazione del governo di voler realizzare l’Alemagna e della nomina del Commissario straordinario del governo per le grandi opere che dovrebbe-vorrebbe superare ogni ostacolo nella realizzazione della nuova via di transito pesante anche contro la Convenzione delle Alpi, ci manca quella voce piccola ma chiara.
Il mattino dell’Alto Adige proprio in questo ha avuto la sua identità: rispetto all’autonomia sudtirolese è stato un giornale delle nuove generazioni, non si è quasi mai lasciato trascinare dall’identificazione nella lingua e nello stato, che fa spesso i titoloni dell’Alto Adige, né nel potere locale. In questo ha contribuito alla crescita di una comunità italiana non unita dalla paura dello scontro etnico, ma consapevole del proprio ruolo in una società plurilingue: un grande merito, che è da attribuirsi interamente ai redattori e alla loro sensibilità. Grazie a loro per questo. E auguri, perché stringe il cuore pensare che tanto sapere rischi di essere disperso in una realtà come la nostra dove non si può fare a meno di nessuno.
Ricordate Piero Agostini? Fu lui all’inizio del Mattino, sorto da una costola del suo nuovo Adige; venne infine "esiliato" a Brescia e aveva nostalgia, e noi qui avevamo bisogno di una persona come lui, retta, e sapiente della storia, curiosa del nuovo e sempre pronta a confrontarsi con gli altri.
Sull’ultimo numero, del 28 maggio, una serie di personaggi e lettori rimpiangono la chiusura del quotidiano. Il nuovo direttore dell’Alto Adige ha (quasi) giustamente osservato che sono stati i lettori e le lettrici a determinarne la fine. E ha promesso che l’Alto Adige si farà carico della responsabilità di essere (tornato ad essere) l’unico giornale in lingua italiana. Vedremo se riuscirà davvero a cambiare così profondamente rispetto alla linea che lo caratterizza negli ultimi anni. La chiusura della pagina tedesca, avvenuta qualche anno fa e la riduzione degli spazi informativi prevista dal piano editoriale non promettono niente di buono.
Fatto sta che per molte iniziative sociali, politiche, civiche, è sceso con la chiusura del Mattino un pesante silenzio, o addirittura un atteggiamento ostile verso tutto ciò che non è codificato dal potere dei partiti, del governo, delle associazioni più importanti.
La crisi della stampa di lingua italiana ha a che fare anche con la riduzione della comunità italiana e rispecchia la mancanza di orientamento culturale e politico della classe dirigente.
Mentre cresce una nuova generazione radicata, autonomista, bilingue e plurilingue, la classe dirigente è sempre meno tutto ciò, impoverita dalla scarsa attrattività della politica e dalla sua chiusura, dallo status quo esaltato dei partiti di importazione."Non c’è niente di nuovo" e "non ci può essere niente di nuovo" - dichiara in modo lapidario un articolo in prima pagina dell’Alto Adige di qualche giorno fa a proposito delle prossime elezioni provinciali, ad evidente difesa del vecchio, e contraddicendo clamorosamente le analisi politiche di tutti gli studiosi della crisi della democrazia che indicano in un profondo cambiamento la possibilità di salvarla.
Al fatto positivo che è terminata la voglia di confrontarsi nel conflitto etnico ormai artificialmente proposto sempre e solo da gruppi e personaggi estremisti e privi di seguito in entrambe le comunità, al fatto positivo che cresce una realtà sociale fortemente interetnica e che si identifica in uno stile di vita e di percezione pluriculturale, non corrisponde nella comunità italiana, ma neppure in quella tedesca se non in chiave di conservazione, ancora una sufficiente consapevolezza storico-culturale delle ragioni della propria esistenza. E come scrive Luis Sepùlveda in un racconto di quel bellissimo libro che è "Le rose di Acatama", chi non conosce la propria storia in modo profondo è destinato ad essere preda di ciarlatani e falsi profeti e a ripeterne tutti gli errori.
Il Laboratorio di Storia di Milena Cossetto e il Gruppo di Storia Regionale stanno facendo un importante lavoro, che tuttavia rivolgendosi alle nuove generazioni ha tempi lunghi. "Ci sono mancate due generazioni per costruire la vera multiculturalità" - ha detto un intellettuale ebreo bosniaco durante l’assedio di Sarajevo.
Una funzione della stampa in una terra pacificata di recente e ancora sensibile alle contraddizioni etniche è dunque di non permettere alla politica dei partiti etnici di avere la meglio con il loro bisogno di conflitto, ma di interpretare la realtà per ciò che è, attenta a ciò che di nuovo e positivo cresce, e critica - come dovrebbe essere il giornalismo sempre - verso il potere dominante.
Le cittadine e i cittadini del Sudtirolo hanno saputo resistere alle provocazioni e hanno creato una realtà pacifica e interessante da vivere, superando le contraddizioni e imparando un po’ alla volta anche ad organizzarsi per creare quel tessuto civile radicato, consapevole e impegnato, che nella città di Bolzano era sempre mancato e nella periferia era troppo scontata preda delle associazioni di partito.
Osservando quanto succede nel resto del mondo infatti siamo ben consapevoli che una realtà pluriculturale può vivere in pace solo se riesce ad essere democratica, e se non si lascia distrarre dai suoi veri problemi dagli obiettivi di una politica che ha come obiettivo il potere di per sé, senza visioni e senza ideali.