L’itinerario di Mauro Cappelletti
In mostra presso l’atrio di Casa Ragen a Brunico fino alla fine di aprile.
La mostra di Mauro Cappelletti presso Casa Ragen e Museo Civico di Grafica di Brunico offre l’occasione per alcune considerazioni critiche relative al suo percorso artistico, dall’esperienza di Astrazione Oggettiva (con Schmid, Senesi, Mazzonelli e Pellegrini) fino ai giorni nostri, dove forte si avverte il bisogno di mitigare il rigore compositivo dei suoi esordi con i possibili che spaziano sulle tele in una forma più fluida e libera.
Al di là delle elaborazioni filosofiche riguardanti il colore e i rapporti linea-colore-movimento, già trattate dalla critica più attenta, per me foresto torna utile far riferimento allo "spirito del luogo" tanto caro a Heinrich Wolfflin per cercare di leggere con semplicità le esperienze pittoriche del nostro, spirito del luogo che rappresenta una sorta di pensiero deterministico che vuole la produzione di "spazi pittorici", la musica del colore e delle sfere al Nord di contro alla consistenza volumetrica non solo delle cose ma degli odori e sapori al Sud. Banale partenza che vuole raccontare la direzione, la coerenza interna, la "traccia fluorescente" delle opere giovanili di Cappelletti, il ricordo dei dialoghi a distanza di due superfici o di due linee, il loro rincorrersi alla ricerca di un possibile equilibrio con il piano. Questo il suo "reale", la sua poetica di partenza liberata dalla violenza delle immagini e della storia: solo e soltanto i processi della visione, i modi di costruzione delle immagini, il lavoro a monte, la pratica del reimparare a vedere non prestando fede alle ombre.
Negli anni Ottanta i segni della sua pittura si fanno più aerei, le vibrazioni della luce sempre più ricercate (fino ai giochi di levitazione prodotti in superficie, come in "Angolazione fluorescente"), sinuosa si fa la linea. Prima di accingersi all’atto del dipingere l’artista attua una forma di spoliazione che non è mai totale; la sensibilità acuta si scontra con gli infiniti ostacoli che sono le opere stesse. La storia passata deve essere metabolizzata e superata nelle forme nuove. Restano stratificate le suggestioni; il passato affiora, la stessa luce-colore va incontro ad effetti di rarefazione (reminiscenze di un Malevic, Diulgheroff o di un oscuro e potente ceramista della Bauhaus di Weimar...), esercizi di grammatica pittorica , le possibili "coniugazioni" di un esile sussurro nella direzione del bianco. Il bianco che fu il bianco di Fontana diventa per tutti gli anni 90 l’ossessione, il regno delle nascoste trame, lo scoprirsi dei veli, delle forme e dei segni che non passano mai e si ripensano sempre, il regno di un "miope sconvolto ulisse.../ che ritrova e non cerca tutti i suoi colori /infiniti bianchi e blu molto blu, quasi blu/ senz’altro blu come è blu quando di blu si tinge" (Sergio Velitti).
La pittura di queste ultime "Arie" non si fa materica: linee centrali di equilibrio, quasi il tracciato di un percorso visto dall’alto, comunque addensano attorno a sé segni e scarti improvvisi di colore fino alle esili tracce di un acquerello, la "realtà, ciò che non ci attendiamo mai" (Henri Maldiney).