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QT n. 6, 23 marzo 2002 Monitor

“Gosford Park” di Altman

Il regista americano Robert Altman racconta nel suo ultimo film, "Gosford Park", coi toni più distesi e divertiti già riscontrati nei recenti lavori, una storia tutta inglese dell’inizio anni ‘30. Il risultato è ottimo, come sempre, e di raffinata gradevolezza la visione, della cui durata, 137’, non si sentono lamentele, tanta è la partecipazione emotiva e visiva alla corale composizione e tale l’attenzione ai dialoghi arguti con pieghe sarcastiche, all’intersecarsi di fatti, pettegolezzi ed emozioni a lungo represse.

L’ambientazione è nel novembre 1932, in una splendida villa aristocratica della campagna inglese, emblema, con i lussuosi interni, abiti e gioielli preziosi, sfarzo e spreco, dell’élite nobiliare. Il padrone di casa, Sir William, la moglie e la figlia la abitano con un nutrito numero di domestici, e la hanno aperta ad una dozzina di ospiti di alto lignaggio, accompagnati ognuno da valletti e camerieri personali, invitati per un fine settimana allietato da una partita di caccia.

Viene così rappresentato il trascorrere di queste giornate, tra i familiari, gli ospiti, la servitù, una moltitudine di persone che si relazionano nei modi più svariati e danno vita ad un vivace affresco d’epoca e di umanità, in cui regole di vivere, amori, delusioni, conflitti, ricordi si inseguono, in sordina come si addice alla classe sociale in scena; e fra l’altro si assiste pure ad un delitto e al suo disvelamento.

E’ un film, questo, di sceneggiatura, dove il dialogo è funzionale all’azione e alle personalità, di atmosfere, di coralità, dove il coordinamento tra gli attori diviene meccanismo impeccabile ad animare l’affresco: questo ruota intorno al delitto, che resta però un pretesto per l’amara e insieme leggiadra messa in scena, gentilmente satirica, dell’alta società in declino, senza divenire il centro del film.

Senz’altro è ispirato ad Agatha Christie, da cui prende tutti gli ingredienti, e di cui ripercorre le psicologie di sospettati, colpevoli, detectives, e in particolare alcuni modelli, come la vittima con un coltello piantato nella schiena che forse non è la vera causa della morte già data prima tramite altro mezzo, o le molteplici ragioni per l’omicidio di ognuno dei presenti; ma di fatto privilegia la descrizione delle loro passioni nascoste, desideri segreti, gelosie, delle relazioni, cioè, all’interno di quel mondo che porta i segni dell’imminente decadenza.

Due sono i gruppi che lo formano, gli aristocratici e la servitù, due mondi che si muovono paralleli e pure intrecciati, tutti infelici e inquieti; gli uni ai piani superiori, con sale e saloni dai ricchi arredi, dalle lussuose tavole imbandite, arroccati nei loro privilegi, amorali, eleganti, classisti e chiusi, fatui e perfidi nelle inutili conversazioni, gli altri ai piani inferiori, cantine, locali da lavoro, stanze piccole e spartane, perfetti e sempre pronti ad eseguire gli ordini, ma anche a diffondere pettegolezzi e malignità, a spiare e riferire; e, tratto curioso, maltrattati e disprezzati come sono dai signori, ne ripropongono al proprio interno, a loro immagine e somiglianza, modi e gerarchia, così che gli addetti alle mansioni più umili sono sottoposti, anche duramente, a quelli di ruolo più elevato. Fra questi due ambiti c’è anche qualcuno che nella chiusura stantia porta un’aria più fresca e uno stile più rilassato e semplice, a rappresentare il nuovo che viene dall’America e dal cinema, e sono un produttore americano e un attore e cantante inglese, irrisi e negletti dai nobili, ammirati con stupore dai servitori.

Tutte queste vite separate si mischiano nella grande villa e ad esse si mischiano le indagini sul delitto di Sir William, uomo gretto e disumano, non amato, che aveva procurato dispiaceri a tutti, alimentando rancori e odio, e che ognuno di loro poteva aver ucciso. Ci sono molte tracce, molti idizi e molti dubbi, ma, vista l’inettitudine del detective lì inviato, la soluzione dell’enigma verrà allo spettatore dai membri della servitù che svelano passo passo i segreti nascosti, il loro passato, il pianto e i sentimenti.

Infatti, oltre che sui rapporti di classe, l’intrigo è agitato pure da moventi sentimental-sessuali, che sono la molla di molte relazioni, con movimenti notturni silenziosi e accorti che si spostano lungo scaloni e corridoi nelle varie camere da letto o nelle lavanderie e prendono pieghe impensate e diverse, restando sospesi o entrando in ambiti imprevisti, che aiutano a dipanare i misteri. E tutto senza la tipica suspence del giallo, perché non importa chi abbia ucciso e come, ma il brulicare di vizi e virtù, di mescolanze, di andirivieni di tutta quella gente, così diversa e che pure, separata per estrazione e funzione sociale, si presenta nei comportamenti l’una come la copia dell’altra.

Per questo, per la variegata levità e superficialità, sfumate di amarezza, per la coralità cui è affidatala storia, emerge prima e più dell’approccio sociologico a una classe e a un’epoca, quello antropologico che descrive le vite, le mille sfaccettature della realtà, la cui spiegazione mai è univoca ma viene da plurimi punti di vista, apertura su tante possibilità.

Dice il regista che anche operativamente sul set ama riprendere, a questo fine, con più macchine da presa, " per avere poi più girato e avere più opzioni in sede di montaggio".

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