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“Filosofia e religione”

MicroMega. Filosofia e religione. n. 2/2000. Pag. 304, £. 20.000.

C’è ancora, sul finito e sull’onnipotente, sul nulla e su dio, una verità da pensare e da tenere ben salda? E ai mali del mondo, quale cura ne viene da questa ricerca? Secondo MicroMega vale ancora la pena parlarne. La rivista ha così affrontato, in un numero monografico di grande successo, il rapporto fra Filosofia e religione nella cultura occidentale, attraverso un confronto a più voci fra filosofi e teologi.

Nel saggio introduttivo, "Dio esiste?", il direttore Paolo Flores d’Arcais sostiene la tesi dell’ateismo. La tradizione scettica (da Hume e Freud a Monod) attraverso l’antropologia storica, la scienza, la psicoanalisi, esce vittoriosa dal confronto con la religione: "La ragione non solo non può dimostrare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, ma può dimostrare che non ". Quanto poi a un Dio onnipotente e buono che si prende cura degli uomini, la sofferenza, almeno degli innocenti, è la prova capitale della sua inesistenza.

L’ateo, cioè l’uomo del disincanto e del finito, chiama così a giudizio una volta ancora la religione davanti al tribunale della "verità", e la inchioda alla sua essenza di "follia per la ragione", del "credo quia absurdum".

Joseph Ratzinger

Il cardinale Joseph Ratzinger si assume invece il compito di dimostrare che il cristianesimo è la religio vera. All’origine vinse sulle religioni pagane proprio in quanto vera philosophia, quella di un Dio che fonda la natura universale, e si china sulla storia degli uomini per salvarli. La "razionalità" e la "serietà morale" del cristianesimo non sono confutati nei tempi moderni nemmeno dall’obiezione scientifica più radicale, la teoria evoluzionistica, che riduce il reale a caso e crudeltà. Se "la ragione è un casuale prodotto marginale dell’irrazionale", essa finisce per rinnegare se stessa, per "rinunciare alla priorità del razionale sull’irrazionale". "La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione": il Logos e la Caritas, la ragione e l’amore, nel cristianesimo coincidono, veri e propri pilastri della realtà.

Il confronto fra d’Arcais e Ratzinger, attorno al nocciolo duro della verità, è però condotto, a me pare, attraverso paradigmi inadeguati rispetto agli interrogativi degli uomini d’oggi. Entrambi utilizzano concetti di ragione e religione così forti, univoci e determinati, da escludere, ciascuno nel proprio campo, la presenza dell’indeterminato, del misterioso, del "non so".

Proprio Freud, alla fine della vita e dei suoi scandagli, ha riconosciuto umilmente che "l’unica interpretazione sicura è l’insicurezza". Se l’incerto, il non vero, è tutto rigettato nel campo avverso, diventa poi difficile realizzare l’auspicato impegno etico comune - fra credenti e non credenti - nella serietà dell’esistenza. Ratzinger vede, infatti, nella Chiesa l’unica istituzione capace di difendere quel "minimo di eticità" indispensabile alla condizione degli uomini, in ambiti come l’intangibilità della vita umana e la difesa della famiglia tradizionale. D’Arcais, al contrario, ai cristiani che vogliono, nella caritas, agire insieme ai non credenti, chiede proprio di rompere con la Chiesa, per essere obbedienti solo al Vangelo.

Se l’obiettivo è la ricerca e un impegno comuni, in un mondo plurale, dove ognuno rinuncia a perseguire la conversione dell’altro alla verità, questo approccio dottrinario, esigente e sicuro, lascia perplessi.

Del nulla e di dio possiamo, certo, parlare solo con le fragili parole degli uomini. Dobbiamo allora disporci a camminare perennemente nel dubbio, e aspettare di veder dirimere la questione della verità solo alla fine dei tempi? Forse è umano, troppo umano, anche questo modo di attendere e di formulare il problema.

Per i cristiani il cambiamento sarà più difficile: il loro corpo massiccio deve ancora fare i conti con la cultura moderna, e imparare a leggere la Bibbia secondo l’esegesi storico-critica. Ne è prova un intellettuale come Norberto Bobbio, che in una testimonianza appassionata afferma di non poter credere, in quanto uomo di ragione, ai racconti della creazione, del peccato originale, del sacrificio d’Isacco.

Norberto Bobbio

Bobbio, dopo una formazione giovanile cattolica, ha abbandonato la fede, ma chissà quanti cattolici non sanno ancora oggi interpretare come miti quei racconti, e cercano consolazione nell’immortalità dell’anima, che non è una verità cristiana, ma un residuo platonico.

Il tema più intrigante dell’ampio confronto è tuttavia quello sulla presenza del male nel mondo: "si Deus, unde malum" si arrovellava già Lattanzio.Scrive Bobbio che questo è "il problema più ostico da superare per fede", perché è semplicemente terribile dover prendere atto che "Stalin muore nel proprio letto, Pinochet morirà nel proprio letto, e Anna Frank in un campo di sterminio."

Per Flores d’Arcais le risposte della teodicea, la dottrina che tenta di giustificare Dio rispetto al male del mondo, provocano antinomie irresolubili. Gettare un bambino ebreo in un forno di Auschwitz non si può definire come semplice "mancanza d’essere". Anche spiegare il male con la colpa originaria dell’uomo significa che, in ultima istanza, ne è responsabile Dio se, nonostante la sua onnipotenza, lo ha voluto o permesso. La sofferenza dell’innocente smentisce infine in Dio l’attributo dell’assoluta bontà.

La domanda a Dio di Giobbe sofferente: "Tu sei giusto e io sono innocente. E allora come la mettiamo?", apre la via, secondo Sergio Givone, sia alla teodicea sia al pensiero tragico. Ma la risposta che Dio possa un giorno convertire il negativo in positivo è scardinata dal rifiuto di Ivan Karamazov di unirsi al coro finale in lode di Dio da parte della vittima e del suo carnefice. Per il pensiero tragico "la realtà del male resta misteriosa e inspiegabile" perché "Dio, il giusto, non può rispondere."

Le difficoltà della teodicea cristiana appaiono insolubili anche a Carlo Augusto Viano. Se la cavano meglio le religioni politeiste che ammettono il conflitto fra divinità diverse. Dobbiamo accettare, dice Viano, che "entrare nel mondo è come estrarre un biglietto di lotteria": la natura è indifferente nei confronti dell’uomo, la secolarizzazione non è nostalgia di Dio, la vita non ha sempre senso ad ogni costo.

Per Umberto Galimberti è proprio il cristianesimo, in quanto dà senso alla vita e propone una soluzione escatologica al problema del dolore, a dissolvere lo scenario tragico in cui era rinchiuso il mondo greco. La domanda circa il senso dell’esistenza in Omero non si poneva, e non si pone al di fuori dell’area cristiana. Ma oggi siamo nell’età della tecnica, l’evento che non progetta più fini al di là di se stesso, né si domanda il perchè dell’accadere. La tecnica corrode così irreversibilmente sia il trono di Dio sia quello dell’uomo, che la visione cristiana aveva faticosamente eretto.

La domanda "dov’è Dio?", che gli uomini dolenti in attesa si pongono, è invece respinta come uno slogan da Joseph Ratzinger. Egli la sente troppo contigua all’aborrita teologia della liberazione, e a una discussione sul concilio, quello passato e quello eventuale futuro, che ritiene, entrambi, "una pericolosa operazione chirurgica" che comporta "un enorme turbamento nella Chiesa cattolica come pure in tutta la cristianità."

Per Bruno Forte però è la stessa domanda su Dio che nasce dentro l’interrogativo attorno al dolore e alla morte nel mondo. L’alternativa suprema, nella risposta, è fra Dio e il nulla. La visione religiosa è, per il teologo napoletano, connaturata con l’essere umano, in quanto naturaliter religiosus.

E’ ancora diversa la posizione di Enzo Bianchi, il monaco di Bose. La fede non si colloca nel registro della necessità, perché è un atto di libertà, un rischio anzi, sempre esposto alla dimensione dell’ateismo. Lo stesso Paolo, nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, ricorda che "non di tutti è la fede", per cui "che ci siano dei non credenti è -per Bianchi - una grazia". L’incontro fra diversi è fecondo non se si conclude con la conversione, ma per "misurare… e svelare ciò che vi è di idolatrico o di inautentico nelle rispettive opzioni."

Un richiamo a Dietrich Bonhoeffer è a questo punto opportuno. Fu il teologo luterano a riconoscere, come il fine dell’evoluzione dell’epoca moderna, l’autonomia dell’uomo e del mondo. Dio non è un "tappabuchi", è una "ipotesi di lavoro" inutile per la comprensione del mondo: "In ciò che conosciamo dobbiamo trovare Dio, non in ciò che non conosciamo; non nelle domande senza risposta, bensì in quelle che hanno trovato una risposta Dio vuole essere compreso da noi", scrive in "Resistenza e Resa".

In ambito cattolico ricordiamo che il Concilio Vaticano II ha rinunciato, dopo aspro dibattito, a ripetere nei confronti dell’ateismo la tradizionale condanna, che soprattutto l’episcopato polacco avrebbe voluto in funzione anticomunista. Il Concilio è passato anzi "dall’anatema al dialogo". Tuttavia ha continuato a riprovare l’ateismo come una lacuna che deturpa l’uomo, perché incapace di rispondere agli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore.

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