Referendum, la fatica di discernere
La miscellanea dei prossimi referendum: da quello sacrosanto sulla legge elettorale, a quelli vendicativi contro i magistrati, a quelli antisociali. Agli elettori il compito di distinguere.
Quanto tempo si impiega per andare a votare? Non più che per recarsi dal tabaccaio a prendere le sigarette, o in un bar per sorbire un caffè, e molto meno che per visitare un supermercato per la fare la spesa. E dopo tutto costa anche meno. Ed allora perché mai molti di coloro che tutti i giorni dedicano una parte del loro tempo a queste occupazioni non sentono il bisogno di impegnare, con frequenza assai più rara, un’equivalente esigua porzione della loro giornata festiva per deporre nell’urna il loro voto? Perché la politica è sporca, e l’onesto cittadino non intende insozzarvisi? O perché i "politici" sono arraffoni ed arruffoni e non meritano alcuna fiducia? O perché i partiti sono aziendine che fanno i loro giochetti sulla pelle del popolo? Si adducono queste motivazioni, ma sono dei comodi alibi. E infatti perché mai più del 60 per cento dei cittadini elettrici ed elettori di Trento non sono andati a votare il referendum di domenica 9 aprile sull’ampliamento dell’aeroporto Caproni? Non c’entrava la politica, né c’era alcun politico da eleggere, né alcun partito da sostenere. Il quesito era semplice ed importante: sei favorevole o contrario a potenziare l’aeroporto di Mattarello?
Io credo che il crescente astensionismo nelle consultazioni popolari, specialmente in quelle referendarie, ma non solo, sia da attribuire al fatto che l’esercizio del diritto di voto presuppone un certo sforzo intellettuale e morale. Prendere un caffè e le sigarette costa qualche monetina. Per esprimere un voto bisogna prima pensare ed assumere una responsabilità, costi che molti non sono disposti a sobbarcarsi.
Le cause di una tale indolenza sono molte. L’inesistente educazione civica e la scarsa cultura politica lasciano i cittadini disarmati innanzi alla estrema complessità dei problemi tipici di una società moderna. I mezzi di comunicazione di massa sono superficiali per necessità, selettivi per malizia partigiana, enfatici per impressionare e vendere, effimeri per destinazione naturale. I partiti ed i protagonisti della politica per parte loro, quanto meno come ci appaiono attraverso i canali della comunicazione, tendono, chi più e chi meno, ad eccitare gli animi piuttosto che a persuadere le menti. Ed anziché semplifìcare i problemi, in modo da renderne la soluzione alla portata degli sprovveduti cittadini, li complicano a dismisura.
Pensate ai referendum che saremo chiamati a votare il prossimo 21 maggio. Uno riguarda ancora una volta la legge elettorale. Promosso da due iniziative convergenti, una dei radicali e l’altra di AN, tende ad abolire la quota proporzionale ed a spingere verso un sistema elettorale compiutamente maggioritario. In questo caso la proposta è chiara e, sebbene il quesito sia tecnicamente oscuro, la scelta da fare è di principio: maggioritario, come già si è espresso il popolo referendario, in modo che la scelta del governo spetti al corpo elettorale; o proporzionale, come ora vuole Berlusconi ed una raccogliticcia congrega di forze e personaggi nostalgici del tempo in cui i governi venivano invece scelti dai partiti. Un referendum importante per rendere la nostra democrazia efficiente, bisogna augurarsi che raggiunga il quorum e vincano i sì.
Ma gli altri, proposti dai radicali e che sono i sei che soltanto sono stati ammessi dalla Corte Costituzionale su ben 20 che erano stati presentati, riguardano questioni complesse, astruse, insuscettibili di essere risolti con il taglio netto di un sì o di un no. Uno riguarda il finanziamento pubblico dei partiti o delle loro attività. E’ questione con ombre e luci risolvibile in modi diversi, più o meno garantiti e trasparenti, ma che certamente esiste in tutte le democrazie. Farne oggetto di un referendum è assurdo e puramente demagogico.
Altri tre riguardano la giustizia. Si inscrivono nell’onda della rappresaglia promossa contro i magistrati dai poteri forti che furono colpiti da Mani Pulite. Uno per la verità, che propone di vietare che ai magistrati siano attribuiti compiti extragiudiziali, avrebbe potuto e dovuto essere superato da una semplice leggina conforme approvata dal Parlamento. Un secondo attiene ad una questione squisitamente tecnica, e cioè i sistemi elettorali vigenti per l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura. Contiene la ridicola pretesa di impedire, attraverso la revisione del criterio elettivo, che i magistrati continuino ad essere persone pensanti. Il terzo è il più carico di significato politicamente vendicativo: mira a realizzare la separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e magistrati del Pubblico Ministero, cioè quelli che conducono le indagini.
Vi sono poi due referendum antisociali, uno contro lo statuto dei lavoratori che prevede l’obbligo di riassumere il dipendente illegittimamente licenziato, e l’altro contro i sindacati, che si vogliono privare della contribuzione delegata dei loro associati.
Se i referendum sulla giustizia sono l’espressione di una politica eversiva contro il potere dello Stato chiamato a garantire la legalità, quelli antisociali sono un’aggressione contro le conquiste guadagnate dalla sinistra in 200 anni di storia, ma che ormai fanno parte di tutta la coscienza civile d’Europa.
Riusciranno gli elettori a veleggiare in mezzo ad un mare così burrascoso? Troveranno il tempo, ma soprattutto la passione per recarsi a deporre nell’urna il loro responsabile voto?