“La morte allo specchio”
Pier Giorgio Rauzi - Leonardo Gandini, La morte allo specchio. La morte secolarizzata nel cinema contemporaneo. Edizioni de L'invito, Trento, 1997, pp. 797, £ 25.000.
Nella "Morte della Vergine ", la tela dipinta da Caravaggio a Roma nel 1606, il soggetto è tradizionale, quello richiesto dal committente ecclesiastico, i carmelitani dell'età della Controriforma. Ma la Madonna rappresentata da una prostituta gonfia d'acqua nel Tevere, gli apostoli affollati e stretti, eppure così soli nell'angoscia, quasi "una comunità episodica destinata a sciogliersi alla fine del rito ", la luce e i colori terreni che ignorano Dio, "etsi Deus non daretur", ne fanno un'opera che insieme riflette e modella la società del '600: contro ogni apparenza, lì vediamo che è avviato il processo di secolarizzazione.
Il cinema del '900, quale mezzo autenticamente visivo, è l'erede della grande tradizione della pittura, capace, in una società industrializzata e opulenta, sia nella versione realistica che in quella fantastica, con la critica della ragione e con il fascino dell'emozione, di essere specchio e modello della morte secolarizzata. I film -e il volume ne analizza 27 in questa ricerca condotta presso l'Università di Trento - nel loro semplice "raccontare storie", ci fanno comprendere la crisi in cui viviamo, nei suoi significati plurimi: la regola della narrazione è infatti la polisemia, in cui un'interpretazione non ne esclude altre, e lo spettatore è chiamato, attraverso il coinvolgimento emotivo e il distacco critico, a dare una valutazione personale.
I carmelitani rifiutarono, allora, l'opera del Caravaggio, perché indecorosa e impertinente: quell'epoca, premoderna, teneva ancora addomesticata la morte in un universo simbolico religioso controllato dalla Chiesa. Oggi la morte, ha scritto Philippe Ariès, da "addomesticata" è diventata "selvaggia", perché, spiegano Pier Giorgio Rauzi e Leonardo Gandini, la rimozione di essa ci ha condotti "dalla morte accolta tra le pareti domestiche come elemento previsto, anche se doloroso e traumatico, che fa parte della vita, alla morte espulsa dalle pareti domestiche e occultata in ambiti che la sottraggono alla visibilità sociale accettata".
Al calore della casa, al conforto degli affetti dei propri cari, si è sostituita la freddezza efficiente e anonima dell'ospedale. Medici, infermieri, addetti alle pompe funebri, cioè i ruoli professionali secolarizzati, liberano la famiglia e la comunità dal contatto con quanto di ripugnante la morte contiene, ma ne rafforzano così la paura e il rifiuto.
La crisi è dirompente nell'ambito religioso. Uomini di chiesa e riti liturgici, quando si esibiscono secondo le modalità della tradizione medievale, appaiono inaccettabili all'uomo moderno, e infatti il cinema ce lì presenta secondo i canoni dell'horror e della paranoia. Ma anche l'aggiornamento indotto dal Concilio Vaticano II, con cui la Chiesa si apre al mondo contemporaneo, propone, seppure con maggiore umiltà e problematicità, la fede come unica risposta in grado di dare senso alla morte.
Gli universi simbolici della morte (non solo quelli religiosi, ma anche quelli laici, per quel poco che la cultura laica ha saputo elaborare in questo campo) appaiono pertanto drammaticamente inadeguati. Il rifiuto della morte, di cui sono segni la privatizzazione e la rimozione sociale, è spiegato dai due sociologi all'interno della più ampia crisi della società moderna, che ha liberato il soggetto individuale dall'oppressione della comunità, fino all'ipertrofia dell'io che, non sentendosi più parte di un tutto organico e durevole, vive l'angoscia della propria morte come la fine del tutto. La conseguenza è l'impossibilità, da parte degli universi simbolici moderni riferiti alla morte, di esercitare la funzione di orientamento etico per gli individui e la società, di costruire quella coscienza storica capace di "legare gli uomini ai loro predecessori e ai loro successori in una totalità significativa", di rafforzare un'identità generatrice di impegno morale e sociale. La comunità che oggi assiste alla morte è veramente "comunità episodica, destinata a sciogliersi alla fine del rito ".
Philippe Ariès osserva come "la morte sia diventata tabù e come, nel XX secolo, abbia sostituito il sesso quale principale divieto. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii al capezzale del moribondo. Oggi sono iniziati dalla più tenera età alla fisiologia dell'amore, ma, quando non vedono più il nonno e se ne stupiscono, gli si dice che riposa in un bel giardino in mezzo ai fiori."
Questa scissione fra amore e morte è il dramma più profondo della storia degli uomini e delle donne, su cui solo l'arte, talvolta, ha fissato lo sguardo.
Da bambino ho visto morire un'anziana carissima zia: prima sono stato mandato in canonica a chiamare il prete, e poi a prendere i candelieri per la veglia funebre in casa. Ricordo mio padre impegnato a rafforzare con tronchi le scale e il poggiolo di legno, troppo fragili per sostenere i numerosi visitatori, e a trovare sei uomini, portatori robusti della bara nel lungo tragitto sulla collina del cimitero. Ricordo mia madre, con altre donne, lavare e vestire il cadavere, e preparare il cibo per chi l'avrebbe vegliato per tutta la notte. E non sapevo, è vero, avrò avuto otto anni, di dove venivano i bambini.
Ora stiamo conducendo a scuola un corso di educazione sessuale, per una classe di diciottenni: come nascono i bambini lo sanno, ma parlare più in profondità di sesso e di amore ci è parso importante. Qualche mese fa è morto, lontano dopo un anno di malattia, un loro compagno, e nessuno di questi ragazzi ha voluto o potuto partecipare al funerale. Di questa assenza non ho mai parlato con loro, e non ne abbiamo discusso nemmeno fra insegnanti.
Quando, fra poco, leggeremo "A Silvia" di Giacomo Leopardi, io ricorderò, a commento, a uno a uno, quelli che so, gli studenti che ho avuto fra i banchi, e poi sono morti. In aula allora ci sarà, come sempre in questa occasione, un silenzio opprimente, e al nome di..... non so come sapremo reagire.
Tentare la ricomposizione fra Eros e Thanatos è un processo dagli esiti imprevedibili, da avviare con impegno e umiltà, e capace di dare senso a un'intera epoca storica. Ne è un aspetto il difficile tema dell'eutanasia, anche perché richiede più capacità di ascoltare che di dire, e ad esso è dedicata l'analisi più ampia del libro, partendo dal film "Meno morta di altri" del belga Frans Buyens del 1992. E' solo l'intensa relazione amorosa fra madre e figlio che permette alla donna di chiedere, e al giovane di dare, il consenso all'eutanasia praticata dal medico. Eppure, dopo la morte, il figlio confessa a se stesso che quello è stato per lui "un sostegno dato senza appoggio", a esprimere tutto il non detto, o l'indicibile, che si raggruma, forse impossibile da scrostare completamente, attorno a questo intreccio di morte e di amore.
Non ci avevo mai pensato, ma "Viatico", una delle più struggenti poesie di guerra di Clemente Rebora, racconta un episodio di eutanasia (indiretta e involontaria). I compagni, dopo che tre di loro sono caduti invano, sospendono i tentativi per salvare un ferito grave, precipitato in fondo al valloncello. Il loro invito pressante è "affretta l'agonia/ tu puoi finire", e si conclude con la preghiera "lasciaci in silenzio-/ grazie, fratello".
Ci vuole un disperato coraggio (o amore? o egoismo?) a lasciare morire un compagno così: forse lo trovano nella consapevolezza che il loro vivere sarà un "rantolare " per sempre. La poesia (e il cinema, certo, con risonanze emotive più estese, ma forse, per ora, meno intense) con i suoi mezzi espressivi scarnificati, è capace di riconciliare così, per un istante almeno, la morte e l'amore. Alla sociologia e alla storia, con il loro linguaggio narrativo e scientifico, il compito di spiegare costanti e varianti del tema più unico e doloroso, la morte di un uomo.